di Alberto Salza
Riflessioni sull’impatto della modernità tra le popolazioni delle regioni meridionali d’Etiopia. Sottomesse dal governo centrale, diventate attrazione per chi cerca l’ultima “Africa selvaggia”, le etnie della Valle dell’Omo vivono sospese tra riti ancestrali e globalizzazione. I cambiamenti imposti dall’esterno hanno sconvolto l’economia tradizionale e disgregato i rapporti tra le comunità. Quale parte ha il turismo in tutto questo?
La Valle dell’Omo mi ha sempre dislocato le sensazioni. Sarà per via di quel nome, mix di detersivo e gender culture. Ci arrivai la prima volta più di trent’anni fa. Dato che l’area era all’epoca off-limits, venni aggregato a un gruppo di giornalisti-turisti. Fummo assaliti dalle mosche tse-tse, importunati dai mendicanti, affondati in un guado, terrorizzati dalle oscure presenze di armati notturni: fu un viaggio bellissimo. Eravamo autorizzati dal ministero etiope dell’Informazione (filo-sovietico), per cui non potemmo eludere la sorveglianza del commissario politico, detto “Gazeta” a dimostrazione del sottotraccia linguistico per la modernità lasciato dall’Italia nelle sue colonie d’Africa.
Si andava alla ricerca dell’ultima Africa incontaminata: balle! Amministrativamente, dal 1995 l’area è chiamata Regione delle Nazioni, Nazionalità e Popoli del Sud, in quanto abitata da decine di cosiddette “etnie”. Prima era l’indescritto panorama della selvaggeria, animale e paraumana, che venne annesso all’impero etiope dalle campagne di Menelik II nel XIX secolo. Il negus intendeva solamente scacciare i razziatori somali e impossessarsi dell’unica risorsa della zona allora appetita: l’avorio. L’arrivo dei fucili imperiali (quelli mai pagati al trafficante d’armi Rimbaud) mutò gli equilibri delle comunità dell’Omo. Per esempio, gli Hamer dovettero rifugiarsi presso i Borana, da cui appresero la pastorizia, isolandosi tra le colline. Applicarono però un efficiente modello di rapporto reticolare con gli agricoltori di pianura, come gli Arbore. Si trattava dell’ahal, un legame associativo (partenariato) tra due soci-amici di gruppi diversi in ambienti differenti (jala); la complementarità ecologica ed economica dei due individui coinvolti in questa forma di società di mutuo soccorso riguardava lo scambio reciproco di stagione, pastura/campo, e territorio.
La fine di tutto ciò ha scatenato, fin dai tempi di Menelik, l’incertezza dei rapporti inter-gruppi, la devastazione ambientale, l’armamento moderno (oggi un Hamer o un Mursi non si staccherebbe mai dal kalashnikov), e i conseguenti conflitti.
Imperialismo culturale
Indossare abiti di pelle conciata con l’urina sul corpo nudo non sarà il massimo dei comfort (provare per credere), ma acquisire cotonina britannica e telefonini cinesi non è stato un grande affare. Gli abitanti dell’Omo, tra salti sui tori (Hamer), piattelli labiali (Mursi), microagricoltura di sussistenza (Arbore), lotte col bastone (tutti), e via dicendo, non hanno mai interessato l’autorità centrale. Ciò è tipico degli imperi nei confronti delle periferie, da Roma alla Cina, fino alla Russia neo-euroasiatista di Aleksandr Dugin. Si offre la cosiddetta “protezione etnica” (da cui i Protettorati del colonialismo europeo) in cambio della sottomissione assoluta.
L’Etiopia è stato un grande impero africano dal 1137 al 1974, quando Menghistu, il “negus rosso” del nostro Gazeta, aveva deposto l’imperatore Haile Selassie, per poi soffocarlo col cuscino che era il simbolo del potere. L’idea imperiale, però, rimase, e oggi è ravvivata dalla modernità: la regione dell’Omo è luogo di sottomissione alle politiche imperial-economiche di Addis Abeba. Tutti gli imperi si basano su: missione civilizzatrice, espansionismo coloniale, salvaguardia temporanea delle enclave etniche. La Valle dell’Omo, con l’invenzione di «nazioni e popoli», doveva rimanere protetta fino a che non servisse il contrario. E, come per tutti i colonialismi, la strategia è stata il terraforming, l’etno-biopolitica che deforma ambiente e persone a immagine e somiglianza del modello centrale. Pensate alla diga Gibe III, che ha sconvolto la Valle dell’Omo scacciandone ben più delle duecentomila persone dichiarate. Io parlo di “avulsione di comunità”, come fossero denti marci.
La metafora ci riporta alla biopolitica della deformazione ambientale del paesaggio e, soprattutto, dei corsi d’acqua. Non a caso agli inizi delle Storia ci sono le “civiltà idrauliche”. Le dighe imperiali sono una sciagura (oltre a Gibe III si veda la diga delle Tre Gole in Cina). L’elettricità serve! A chi? Mi chiedo a che punto dell’evoluzione di Homo si sia inserita una stringa genica del castoro. Nel pieno del disastro, oggi le comunità dell’Omo esistono in modo differente da quel che vidi trent’anni fa. Ciò sarebbe più che giusto se avvenisse come processo modernista deciso autonomamente, non tramite dislocazioni forzate. Nelle tenebre del Congo, il Kurtz di Conrad annota sul taccuino: «Sterminate quei bruti».
Secondo la visione imperiale, per i “selvaggi” dell’Omo il tempo si ripete all’infinito; non vale la pena studiarne e rispettarne il passato perché non ha né traiettoria né significato. Ma qui, come in Conrad, l’orrore si trasferisce al fiume, alle foreste, alle montagne, a tutta la “materia bruta” del paesaggio. I turisti che bramano, rimpiangono e contano di fotografare comunque corpi nudi e rituali sadici (v. “Le frustate che attirano i turisti”, Africa, 6/2019) la pensano forse diversamente?
Domande sbagliate
Un’agenzia di viaggi con sede a Londra offre una guida al turismo tra le comunità dell’Omo. Ben fatta e aggiornata al 2022, si basa su 9 domande: «Perché dovrei visitare la valle dell’Omo? Tale visita è etica? Come sono le interazioni con le comunità? Quante ne vedrò? Quanto tempo passerò in ogni villaggio? Come ci arrivo all’Omo? In che strutture ricettive mi troverò? Quando è meglio andarci? Quanto costa?». Notate: le domande, etica compresa (con la morale di chi?), riguardano la persona che va e non quella che riceve, di cui si vuole conoscere solo la quantità, numero di comunità e tempo disponibile per villaggio.
Al mio ritorno dal primo viaggio all’Omo venni intervistato da una giornalista. Le riferii che a noi il governo locale aveva dato spilli e specchietti da barattare con fotografie, ma già si sentivano le parole «one photo one birr», che sarebbero divenute l’urlo di battaglia di ogni persona, dal fiume alle colline dell’interno, in presenza di alieni bianchi (oggi l’inflazione vola verso i 10 birr). La giornalista fraintese la mia pronuncia di birr, capì beer, e scrisse: «Una foto una birra!». Probabilmente aveva visto il futuro: oggi l’alcolismo da ketikala (idromele distillato, ottimo) è una risorsa psicofisica per le comunità deportate dal bacino dell’Omo onde far posto all’agricoltura intensiva del dell’idrovora canna da zucchero e alle trivellazioni petrolifere cinesi. L’attuale vulgata recita: senza il turismo, la Valle dell’Omo sarebbe ancora più povera (chi calcola la povertà delle persone)?
Le cause starebbero nelle magre risorse disponibili (per chi?), e poi l’abigeato diffuso, la violenza, le lotte tribali, la siccità, il ritardo nel ricevere assistenza (tutti effetti del terraforming biopolitico del paesaggio, non cause). Cosicché, il turismo diventerebbe un «aiuto vitale per le comunità, in quanto fornisce un reddito di base». La verità è che la Valle dell’Omo, dopo decenni di deculturazione forzata, si sbarazzerà delle forme imposte dall’impero, assumendone di nuove. Sconosciute. Dopo un paio d’anni d’isolamento per via del covid-19, ci chiediamo chi e cosa potremmo ancora trovare, oggi, nella Valle dell’Omo. La vera domanda che dovremmo porci è: riusciremo a mandarci turisti, giornalisti, antropologi, cooperanti, persone che nel frattempo siano divenute migliori?
Foto di apertura: Anthony Pappone
Questo articolo è uscito sul numero 4/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.