È stata un’eroina della nazione. Ma poi ha anche «spaventosamente sbagliato». E in tribunale è stata condannata. Perché, allora, il popolo è stato così caloroso con lei in occasione della sua morte?
L’attualità e la storia africane sono piene di dilemmi morali, di scelte dolorose, di ambiguità irrisolte che restano sospese e continuano a interrogarci. È ad esse che vorrei dedicare i miei interventi in questo blog di Africa.
Comincerò da Winnie Madikizela-Mandela, già moglie di Nelson e “madre della nazione” sudafricana in lotta contro l’apartheid. Winnie è morta ottantunenne a inizio aprile e il suo Paese le ha tributato grandi onori funebri. Sapevo che l’ex signora Mandela aveva mantenuto negli anni un forte seguito personale; credevo però che la sua immagine pubblica fosse stata irreversibilmente compromessa dalle gravissime vicende penali in cui era stata coinvolta in passato, a cominciare dall’accusa di sequestro di persona e coinvolgimento in omicidio. Ma sono stato smentito: la commozione è stata apparentemente universale in Sudafrica, l’Orlando Stadium di Soweto si è riempito in ogni ordine di posti per la cerimonia funebre, e lo stesso concorso di popolo e di autorità si è registrato il giorno del funerale, che si è svolto in forma “ufficiale speciale” a cura del governo. Ho faticato a capire come sia stato possibile.
Nel novembre-dicembre 1997 assistei, come inviato di Repubblica, alle udienze della Commissione Verità e Riconciliazione (Trc) sulle malefatte di cui era accusata Winnie Mandela insieme al famigerato Mandela United Football Club. La Trc era presieduta dall’arcivescovo Desmond Tutu e aveva il compito di portare alla luce, attraverso confessioni spontanee, i passati crimini dell’apartheid. Già il fatto che dovesse occuparsi di vicende che coinvolgevano la Mother of the Nation anziché i torturatori della polizia politica era del tutto eccezionale.
I verbali dei nove giorni di udienze a Johannesburg sono facilmente consultabili online. Circa 2400 pagine dalle quali emerge un quadro devastante di sospetti e di terrore, abusi, violenze, torture, rapimenti, omicidi, occultamenti di cadaveri compiuti dagli sgherri del Football Club agli ordini di Winnie e da lei stessa, e che per lei avrebbero comportato lunghi strascichi penali davanti alla giustizia ordinaria. Sono vicende troppo complesse per poterle anche brevemente riassumere qui. Mi limito a ricordare che le vittime erano giovanissimi militanti del movimento anti-apartheid, figli di famiglie povere di Soweto o di altre zone del Paese, non “nemici di classe” o sgherri del regime razzista. L’immagine che è rimasta nella mia memoria è il contrasto tra la maggior parte dei testimoni, persone dolenti di modesta condizione e di dimesso aspetto, e l’apparenza di Winnie e di sua figlia Zindzi che l’accompagnava, eleganti, con indosso accessori vistosi, neanche fossero state protagoniste di un reality.
Il fatto che negli anni successivi alcuni testimoni chiave abbiano dichiarato di essere stati manovrati dai servizi dell’apartheid, e che l’entourage ristretto di Winnie negli anni dell’ultima rivolta di Soweto appaia retrospettivamente almeno in parte infiltrato dal regime segregazionista, non cancella l’evidenza dei crimini a lei imputati. Semmai l’aggrava, facendo figurare la “madre della nazione” come una persona avventata e irresponsabile, che si lasciò indurre in gravissimi errori dalle manipolazioni dell’apparato poliziesco.
Seguiranno all’inizio del nuovo secolo altri guai giudiziari, questa volta per furto (assolta) e truffa (condannata), sempre ai danni di povera gente. Ma nel frattempo Winnie Mandela aveva avviato un’evoluzione politica, già individuabile negli anni della sua militanza anti-apartheid, che l’aveva portata su posizioni sempre più critiche verso il suo partito, l’African National Congress, ormai diventato forza di governo. Era diventata la portavoce dei diseredati, delle speranze deluse, dei milioni di neri sudafricani che dalla fine dell’apartheid si erano aspettati più ricchezza per tutti e non l’avevano avuta. Una Madonna dei ghetti, rimasta sempre a vivere a Soweto mentre l’ex marito invecchiava a Houghton, il sobborgo più esclusivo di Johannesburg.
Invano il partito aveva cercato in tutti i modi di emarginarla: dalle elezioni per gli organi interni era sempre uscita trionfatrice. Winnie si era insomma ricostruita nelle piazze il credito perso nei tribunali. Il suo lontano passato di eroina della resistenza contro la segregazione razziale risplendeva tra le masse molto più di quello più recente, di donna violenta e disonesta. A cavallo tra il primo e il secondo decennio degli anni Duemila andava prendendo forma in Sudafrica quel campo politico populista di sinistra che al momento è diventato il terzo partito del Paese. Un successo proporzionale al fallimento di ormai quasi un quarto di secolo di governo dell’African National Congress. Quest’area politica ha un partito, gli Economic Freedom Fighters, e un demagogo che ne è il leader, Julius Malema. Winnie, pur non avendo mai lasciato l’Anc, ne è stata il riferimento, la sponda, la più autorevole simpatizzante. Dopo la morte ne è diventata la bandiera.
Nei giorni che hanno preceduto il funerale, Julius Malema ha dichiarato: «Chi accusa Mama Winnie di aver commesso crimini è colpevole di tradimento». E così il cerchio si chiude. La politica e i suoi fallimenti offrono a Winnie, a titolo postumo, l’assoluzione che la giustizia non le ha mai concesso. Per colmo d’ironia, tre mesi prima che morisse, la prestigiosa Makerere University di Kampala, in Uganda, le aveva conferito una laurea honoris causa. In Giurisprudenza.
La popolarità di Winnie Mandela, forse addirittura in crescita dopo la sua morte, il rifiuto di ampi settori delle masse sudafricane di mettere nel conto i lati più oscuri della sua vita, sono per me sintomi della confusione morale in cui versa il Paese. L’ex Mother of the Nation è stata senza dubbio un’eroina, una donna che quando era giovane madre di due figlie, con il marito in carcere, dovette affrontare e sostenere da sola l’intera violenza del regime segregazionista, incarcerata, torturata, umiliata, perseguitata, vessata in ogni possibile maniera. Ma è stata anche un individuo che ha spaventosamente sbagliato, facendo a sua volta di altri innocenti, che condividevano la stessa sua sorte, la medesima oppressione, delle vittime di feroci e fuorviate vendette personali.
È molto difficile tenere insieme questi due aspetti, accettarne la coesistenza in un unico individuo. Il Sudafrica, a quanto pare, non ci sta riuscendo. Forse la stessa Winnie ha contribuito a rendere insufficiente la forza morale collettiva che sarebbe necessaria per farlo. Per esempio, quando nel 2010, in un’intervista rimasta famosa e smentita a fatica solo una settimana dopo, accusò Nelson Mandela di aver «deluso» (ma si potrebbe anche tradurre «tradito») i neri sudafricani e disse di Desmond Tutu: «Lui e i cretini come lui». In definitiva, la parabola di Winnie Mandela ben raffigura un Paese confuso, in difficoltà, diviso tra la memoria di un passato glorioso e un presente impastato di scontento.
Pietro Veronese. Giornalista, ha speso quasi l’intera sua vita professionale con Repubblica, testata alla quale tuttora collabora. Ha lavorato per molti anni come inviato speciale di politica internazionale seguendo crisi e conflitti in Europa e in Asia, nei Balcani e in Medio Oriente, ma soprattutto in Africa a sud del Sahara. Per Laterza ha pubblicato vent’anni fa la raccolta Africa. Reportages.