Dal 31 agosto, migliaia di giovani cristiani soprattutto dell’Africa occidentale si ritroveranno a Cotonou per pregare e nutrirsi dello spirito ecumenico e dei valori di fratellanza testimoniati dai monaci di Taizé
«Ah, Taizé, quella piccola primavera!». Con queste parole Giovanni XXIII, papa da pochi giorni, accolse frère Roger in udienza privata. Era stato proprio lui, nunzio apostolico a Parigi, a concedere a un’inedita comunità religiosa protestante l’utilizzo della chiesa cattolica di un borgo di poche anime nella Borgogna. Taizé. Poteva, quella brezza di spiritualità ecumenica e giovane, non arrivare a soffiare anche in Africa, per il cui caso si ama parlare, più che per ogni altro continente, di “giovane Chiesa”?
I primi contatti di Taizé (ormai il toponimo sta per la Comunità) con l’Africa risalgono al 1953, quando due frères si uniscono ai Piccoli fratelli di Gesù presso il noviziato di El-Abiodh, in Algeria, da dove migreranno assieme, a piedi, fino a Beni Abbès. Quando, tre anni dopo, frère Roger andrà a incontrarli ad Algeri, sfuggirà di misura a un attentato: era ormai nell’aria la “battaglia di Algeri” (quella immortalata nel film di Gillo Pontecorvo). L’attenzione al mondo islamico si estende presto a quella per l’Africa subsahariana: nel 1959 due fratelli iniziano a vivere ad Abidjan. E poi altri in Niger, Ruanda, Kenya, Senegal… mentre frère Roger farà nel continente dei soggiorni significativi, come quello del 1984 a Nouakchott, da dove invierà uno dei suoi celebri messaggi ai giovani, la Lettera dal deserto.
Un passo… un altro passo
Ma che ci stanno a fare questi sparuti gruppi di religiosi nelle periferie africane? «Noi non siamo missionari nel senso abituale del termine», dice ad Africa il responsabile della fraternità di Nairobi (quattro monaci stabili), frère Luc, francese. «Non costruiamo niente, non abbiamo competenze da offrire, non siamo una ong. Siamo una presenza fraterna tenue, ma che può suscitare degli interrogativi».
Non occuparsi di opere e di progetti, per privilegiare piuttosto le relazioni quotidiane, non significa però stare con le mani in mano. Prendiamo una giornata-tipo a Grand Yoff, sobborgo di Dakar. «Come a Taizé – racconta Cristi, un frère catalano – la nostra vita ruota attorno alle tre preghiere comunitarie che scandiscono la giornata: la presenza alla preghiera è prioritaria rispetto a ogni altra attività. La nostra fraternità non ha “progetti di sviluppo” né di “impegno sociale” di grande portata. Portiamo avanti le attività Ak benn, che riguardano bambini e ragazzi ma anche le donne». Ak benn, che in wolof significa “un altro passo” (sottinteso: “… e così andiamo avanti”), è un’iniziativa lanciata oltre vent’anni fa. Sotto gli alberi prospicienti la fraternità, nei pomeriggi feriali bambini e adolescenti sono immersi in una sorta di doposcuola dove la parola d’ordine è interessarsi a quanto li circonda: la natura e l’ambiente, la cultura, il lavoro… Non mancano le esplorazioni nelle realtà dei dintorni, dove c’è sempre qualcosa da scoprire. I ragazzi più grandi fanno “volontariato” presso i più piccoli. «È come una sfida che li fa diventare attori del loro proprio sviluppo», chiosa Cristi. E intanto gli uni e le altre, cioè anche le mamans, imparano a produrre articoli artigianali diversi, che sono venduti in città, e anche in Europa tramite un sito (akbenn.webs.com) col suo bravo catalogo e grazie a una rete di amici.
Fratelli nello slum
A Nairobi la fraternità era già stata presente negli anni 1978-89, nella bidonville di Mathare Valley, vedendosi alla fine costretta a chiudere per una serie di ripetuti incendi nello slum, chiaramente appiccati a scopo di speculazione edilizia. Vent’anni dopo è stata invitata a ritornare dalla Conferenza episcopale cattolica del Kenya per dare continuità alla tappa del Pellegrinaggio di fiducia sulla Terra che Taizé aveva organizzato in città nel 2008.
«Risiediamo in una struttura della Conferenza episcopale per la pastorale giovanile – spiega frère Luc –. Ci dedichiamo al lavoro manuale (creazione di icone, di smalti su cuoio, di collage di cortecce…) per cercare di essere indipendenti. Oltre a questo, mentre uno di noi sta ancora studiando, gli altri sono impegnati in attività sociali con i bambini di strada. Ogni mese, inoltre, organizziamo una giornata di ritiro per i giovani e, durante le vacanze scolastiche, esercizi spirituali di cinque giorni nello stile di Taizé, ma su scala più ridotta. Possiamo ospitare fino a 85 giovani, provenienti anche da Tanzania, Uganda, Ruanda, Burundi, dall’Est della Rd Congo… Siamo inoltre chiamati ad animare incontri e momenti analoghi di spiritualità fuori Nairobi e anche nei Paesi vicini». E poi, negli ultimi tem- pi ferve la preparazione di un nuovo raduno del “Pellegrinaggio di fidu- cia”, evento che non è uno scherzo.
Celebrazione, non evasione
“Pellegrinaggio di fiducia sulla Terra” è il nome che frère Roger diede, nel 1984, ai grandi incontri di giovani che da allora si tengono annualmente in diverse città europee e, con periodicità diverse, in altri continenti. Il villaggio di Taizé per tanti giovani rimane un potente polo di attrazione, «ma come incoraggiarli a pregare e ad impegnarsi per gli altri, più vicino ai luoghi dove vivono?», leggiamo sul sito della Comunità. «Il “pellegrinaggio di fiducia” vuole rispondere a questa domanda, offrendo a ciascuno la possibilità di mettersi in cammino… “Avanza sulla tua strada, perché esiste solo quando cammini”». È anche il modo di offrire la possibilità di un’esperienza in stile “taizeiano” a chi non potrà mai recarsi in Borgogna.
Johannesburg 1995, Nairobi 2008, Kigali 2012 e, il prossimo 31 agosto-4 settembre, Cotonou. Nella capitale economica del Benin convergeranno 9.000 partecipanti, più che nelle precedenti tappe africane ma molto meno che negli incontri europei (45.000 a Roma nel 2012). Non perché manchino i candidati (tutt’altro!) ma per le immaginabili difficoltà di trasporti e di lo- gistica.
L’evento di Cotonou – reso possibile in particolare grazie all’iniziativa della Chiesa metodista beninese, così come anglicani, presbiteriani e altri protestanti avevano giocato un ruolo di primo piano nelle tappe precedenti – si svolgerà nel consueto stile: grandi momenti di preghiera comune, collaborazione di tutti nei servizi necessari per il buon decorso dell’evento, visite a luoghi e “persone di speranza” della città ospite, incontri di gruppo (i carrefours) su temi prefissati, dove l’essenziale non è discutere ma scambiare – idee, esperienze – e immaginare come portare nel concreto della propria vita i valori e lo spirito sperimentati insieme. E poi c’è sempre l’occasione di conoscere, anche nei momenti informali come la fila per il pasto, altri giovani con i quali scoprire di condividere cammini comuni. E dove, immancabilmente, si stringono amicizie nuove, se non nuovi amori.
La scoperta del silenzio
C’è almeno un’altra domanda che non possiamo fare a meno di rivolgere a frère Luc. Taizé, con tutto il bene che se ne voglia pensare, è un’esperienza molto europea, per la sua origine geografica e la sua storia nonché per il suo stile. Il momento più caratteristico che scopre chi ha salito la piccola collina borgognona sono le liturgie, dove le immagini presenti sono icone ortodosse, i canti sono dei brevi e reiterati canoni di sapore antico, la Parola è proclamata senza enfasi, i momenti di silenzio molto prolungati e i gesti del corpo estremamente sobri. Un’atmosfera ovattata, in apparenza distante dall’anima africana che solitamente vediamo esprimersi nel culto in modo estroverso se non debordante. Come si spiega, allora, l’attrattiva che Taizé esercita anche in Africa?
«Noi stessi siamo rimasti sorpresi dalla facilità con cui i giovani erano “entrati” nella preghiera comune – ci risponde frère Luc riandando a Nairobi 2008 –. La nostra è una preghiera contraddistinta da un carattere meditativo, da canti ripetitivi, dal silenzio. Pur avendo incorporato nelle nostre liturgie anche canti e ritmi locali, strumenti ed elementi decorativi tradizionali, essa è ben lontana dalla rumorosa forma praise and worship che ha preso piede un po’ dappertutto nel continente, specie nei Paesi anglofoni, per influenza del movimento carismatico. Ciò significa che, nel profondo, c’è un’attesa di ciò che proponiamo. Le testimonianze di chi prende parte ai ritiri che noi animiamo ci confermano quanto numerosi siano i giovani che apprezzano la pace e la libertà interiore che sgorgano in loro grazie a questo tipo di preghiera. E che consentono di sottrarsi alla pressione di una quotidianità fatta di lotta per la sopravvivenza, di inquietudini per il proprio futuro, di studio, di lavoro, di trasporti, di rumore…».
Pier Maria Mazzola