Con oggi inizia una serie di articoli che raccontano i siti storici africani in pericolo. Una carrellata per aprire uno squarcio sulla ricchezza architettonica e culturale del continente.
La tecnologia di Google Arts & Culture, la tutela che l’Unesco offre ai siti artistici, archeologici, storici e naturali sparsi sul pianeta e la costante minaccia che su di loro incombe anche a causa dei cambiamenti climatici: da questi presupposti è partita la più recente iniziativa che Google ha chiamato «Heritage on edge», messa in atto per catalogare e rielaborare anche con gli strumenti in 3D tutte le informazioni possibili su questo fragile e immenso patrimonio dell’umanità, in vista di incisive azioni sui territori.
Sul sito web da poco aperto https://artsandculture.google.com/project/heritage-on-the-edge, video girati con droni, foto anche a 360 gradi, testi, fotogrammetrie e ricostruzioni tridimensionali danno conto dello stato attuale in cui versano cinque di questi luoghi scelti uno in ogni continente: la città di Edimburgo in Scozia (Europa), Rapa Nui sull’isola di Pasqua (Oceania), la moschea della città di Bagerhart in Bangladesh (Asia), l’antico abitato di Chan Chan in Perù (Americhe) e il sito di Kilwa Kisiwani in Tanzania (Africa). Appoggio incondizionato viene dall’Icomos (International council on monuments and sites) che ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, che questi siti non sono mere destinazioni turistiche, ma hanno un enorme significato culturale e spirituale per l’umanità intera e per le popolazioni locali, che da qui possono anche trarre voci concrete di sostentamento.
Kilwa Kisiwani è stata descritta nel 1331 dal grande viaggiatore arabo Ibn Battuta come una delle più belle città del mondo. Si trova allo sbocco di un piccolo e tortuoso golfo su un’isola prossima alla costa, distante 300 chilometri a sud di capitale Dar es Salaam. Il luogo, insieme all’attigua Songo Mnara, era una città commerciale swahili, che addirittura batteva moneta e controllava i commerci con l’Arabia, l’India e la Cina attraverso l’Oceano Indiano, tra il 1200 e la fine del 1400, quando l’oro, il ferro e l’avorio, nonché gli schiavi provenienti dall’entroterra, venivano scambiati con ceramiche persiane e cinesi, argento, cornalina, tessuti, gioielli, spezie e profumi orientali.
La colonizzazione portoghese vi edificò poi un grande forte sul mare, quello che viene oggi documentato sul web. Rimase sotto il controllo portoghese tra il 1505 e il 1512. In quell’anno venne conquistata da un sultano arabo. Dal 1784 fu poi annessa dai re di Zanzibar, passò successivamente ai francesi sino al 1840, quando fu abbandonata prima di diventare colonia tedesca tra il 1886 e la fine della Prima guerra mondiale.
Sono tante le tracce rimaste di quest’antica civiltà sparse su quasi tutta l’isola, in gran parte però ancora da scavare. Si conoscono in ogni caso la Grande Moschea con cupole e volte del XI–XIII secolo affiancata da altre minori in tutta la città, il palazzo reale Husuni Kubwa con piscina ottagonale, le case, gli spazi pubblici, la necropoli. E lo stesso dicasi per la citata Songo Mnara, dichiarate insieme Patrimonio Unesco sin dal 1981.
Nel 2004 il sito venne elencato tra quelli in pericolo di sopravvivenza: lo minacciavano il deterioramento costante di tutte le rovine archeologiche costruite usando la pietra corallina, che si stavano velocemente sfaldando e sprofondando, con crolli estesi sulle pendici delle colline e l’avvolgente sviluppo devastante della vegetazione tropicale. Il problema stava per gran parte nell’impatto avuto su Kilwa Kisiwani dal cambiamento climatico che si è manifestato nell’aumento dell’azione devastante delle onde marine e dell’erosione delle spiagge. In parallelo, la percezione di una vista di insieme dell’antica città portuale era decisamente compromessa da un degrado complessivo del litorale, su cui era alto l’impatto della presenza di mandrie di animali, di coltivazioni agricole e di costruzioni. Da quel momento è arrivata una scossa che ha fatto partire un piano di risanamento abbastanza efficace, tanto da far sì che l’Unesco dieci anni dopo potesse fare marcia indietro ed eliminare il sito africano dall’elenco di quelli in pericolo.
Adesso è il momento di mettere in pista un meccanismo di tutela che coinvolga la popolazione locale e che progetti un piano urbanistico capace di assicurare uno sviluppo limitato alle abitazioni e un preciso piano di zonalizzazione agricola. Il progetto voluto da Google va in questa direzione perché sono necessarie risposte precise al degrado che certo in breve tornerà a manifestarsi senza un’ulteriore pianificazione di interventi di manutenzione costanti e duraturi nel tempo, necessari per questo come per tutti gli altri siti tutelati dall’Unesco.
A maggior ragione si deve intervenire su quelli che sono rimasti nella lista «in pericolo» e che sono minacciati dalle situazioni più varie (guerre, spostamenti massicci di popolazione, estrazioni minerarie, distruzioni di habitat naturali, deforestazioni, inquinamento industriale), oltre che dagli onnipresenti cambiamenti climatici. In Africa sono oggi 22 quelli enumerati a rischio dall’Unesco. Si tratta di parchi naturali, di siti archeologici e di antiche città e monumenti.
(Mario Ghirardi)