In Tanzania, alle falde del vulcano Ol Doinyo Lengai, gli scienziati studiano le impronte lasciate dai nostri antenati
Il suo nome, nella lingua dei Masai, significa la “Montagna di Dio”. È un vulcano attivo molto particolare. Ma per i ricercatori è soprattutto una finestra aperta sulla preistoria. La conferma arriva dalle quattrocento tracce di Homo sapiens preservate dalle sue ceneri
Di notte, la lingua rovente che fuoriesce dalle viscere si srotola come la protuberanza di un gigante. Più spettacolare che minacciosa. Il vulcano non fa paura. I Masai lo considerano un luogo di pellegrinaggio o, meglio, un tempio sacro. Non a caso lo hanno battezzato con il nome di Ol Doinyo Lengai: la “montagna di Dio” in lingua maa. Si trova nella Tanzania settentrionale, nel cuore della Rift Valley: ritenuta finora la culla dell’umanità. Ogni tanto i pastori si inerpicano sui suoi versanti impervi, raggiungono le fenditure della caldera in cui gorgoglia la lava, lanciano offerte nel cratere. Fanno sacrifici per propiziarsi la protezione del “dio Engai” che abita nel suo cratere: chiedono pioggia, bestiame, salute e figli. E lo spirito della montagna non manca di mostrarsi. Le eruzioni sono frequenti. I vulcanologi le osservano a distanza ravvicinata poiché le colate laviche hanno caratteristiche uniche: ricche di carbonato di sodio – anziché di silicati – e particolarmente “fredde” (500 gradi °C contro gli 800-1200 delle altre comuni emissioni laviche), solidificandosi danno origine a curiose formazioni rocciose.
Ma è alle pendici del vulcano che ora sono concentrati gli studi degli scienziati: in particolare nelle vicinanze del Lago Natron, una dozzina di chilometri a nord del vulcano. Qui un team di ricercatori internazionali sta analizzando lo straordinario ritrovamento fatto nel 2008 dall’ecologo Jim Brett: una vasta serie di impronte umane molto ben conservate, lasciate nell’antichità da ominidi e rimaste immortalate nel fango. «È un sito di eccezionale importanza scientifica», spiega il paleoantropologo americano William Harcourt-Smith, membro del gruppo di ricerca. «C’è un punto in cui le impronte sono così numerose che lo abbiamo soprannominato “la sala da ballo”».
Le tracce di Homo sapiens, dalle dimensioni e caratteristiche differenti, sono state lasciate in un lungo arco temporale compreso tra i 5000 e i 19.000 anni fa. «Si sono preservate fino ai giorni nostri grazie ai manti di ceneri vulcaniche rilasciate dall’Ol Doinyo Lengai», chiarisce lo scienziato. Finora sono state censite oltre 400 impronte fossilizzate nella melma lacustre. Nessun altro sito africano vanta un così ampio numero di calchi lasciati dai predecessori della nostra specie, il che lo rende un luogo chiave per la comprensione dell’alba dell’umanità.
(Kodjo Sena)