Nel Tigray, le forze armate federali hanno liberato un migliaio di soldati che erano stati catturati dai combattenti legati al Tplf (Tigrayan People’s Liberation Front), la formazione politica che si è ribellata al governo di Addis Abeba. Tra i liberati c’era il vice capo del Northern Command, la base militare che è stata attaccata all’inizio di novembre innescando il conflitto.
Due settimane fa, il premier etiope Abiy Ahmed aveva annunciato che il conflitto era concluso. Poco si sa dei vertici del Tplf. Non si sa dove si siano rifugiati negli ultimi giorni e che cosa stiano pianificando per il futuro. Nelle scorse settimane, i leader del movimento tigrino avevano, però, promesso di continuare a combattere finché le truppe federali – che chiamano invasori – fossero rimaste nel Tigray. E, sebbene le autorità etiopi, neghino la possibilità di una rivolta, nel Tigray continuano a registrarsi scontri sporadici tra militari e miliziani tigrini.
L’Onu ha avvertito che la situazione nello stato potrebbe «sfuggire al controllo» con spaventose conseguenze umanitarie. Già ora, secondo il Palazzo di Vetro, i combattimenti hanno lasciato un profondo segno sulla popolazione civile. Secondo le Nazioni Unite, gli scontri hanno avuto «un impatto spaventoso sui civili». Quasi 50.000 persone fuggite dal conflitto hanno già attraversato il confine con il vicino Sudan.
«La situazione è drammatica, scarseggiano cibo e acqua e le comunicazioni sono interrotte. Le condizioni sono al limite anche per i centomila eritrei fuggiti dal loro Paese e ospitati nei campi profughi presenti nella regione del Tigray», così ha dichiarato a Vatican News Fessaha Alganesh, dottoressa italoeritrea, fondatrice dell’Ong Gandhi Charity, da oltre 20 anni impegnata in missioni umanitarie nei campi profughi del Tigray. Alganesh denuncia inoltre l’intervento di truppe eritree a supporto di quelle etiopi, un’azione volta anche ad arrestare molti oppositori eritrei scappati oltre confine.