Tra i profughi burundesi in Ruanda. Si teme una nuova guerra

di Enrico Casale
profughi burundesi

profughi burundesiLontano da Bujumbura e dai confini del Burundi, il campo profughi di Mahama sorge sulle rive del fiume Akagera, frontiera naturale fra Ruanda e Tanzania. Diventato il campo profughi burundese più grande sul territorio ruandese, ha tristemente compiuto giovedì scorso i 100 giorni di esistenza. Da ormai più di tre mesi, infatti, un flusso continuo di profughi burundesi hanno cercato rifugio presso il Governo di Kigali. Attualmente sono 31mila, ma altri 10 mila, fermi in campi di transito vicino alla frontiera, sono in attesa di esservi trasferiti e di sicuro non ripartiranno a breve termine.

Mentre a Bujumbura la notizia del nuovo accordo fra Pierre Nkurunziza e Agathon Rwasa fa innervosire i ranghi dell’opposizione, molti burundesi scelgono di fuggire a costo di rischiare la vita. Il leader dell’opposizione ha ceduto ormai alle pressioni del partito al potere, il Cndd-Fdd. Ancora non si ha la certezza del motivo che lo ha condotto a passare nelle file del «nemico», ma sicuramente il Presidente gli ha fatto un’offerta che non poteva rifiutare. Il sogno di tutta l’opposizione, che potrebbe tradursi nella maggioranza della popolazione, è stato infranto lunedì, quando Rwasa ha annunciato di accettare di sedersi in Parlamento. Dopo il danno, pure la beffa. Giovedì infatti è arrivata la notizia che sarà nominato primo Vicepresidente della Repubblica. Insomma, un risultato inaspettato per chi aveva creduto di poter cambiare le cose.

Ma in un campo profughi, la politica viene dopo. I bisogni essenziali sono impellenti. A Mahama, in particolare, dove la geologia e il clima costituiscono un vero ostacolo. La savana è arida, il clima è caldo. L’elettricità è un sogno. L’acqua è insufficiente. «Siamo in grado di garantire al massimo 10-13 litri di acqua al giorno a persona per sopravvivere, quantità inferiore allo standard internazionale richiesto che è di almeno 15», spiega Jeff Drumtra, il responsabile delle relazioni del campo per conto di Unhcr (agenzia Onu per i rifugiati). Si stanno cercando soluzioni alternative a quelle attuali: «Ci sono camion con cisterne che devono percorrere più di 60-70 km per trovare l’acqua. È molto caro e i mezzi si rompono facilmente. Stiamo cercando quindi di pompare l’acqua dal fiume Akagera, ma prenderà tempo e se non funzionerà prima dell’arrivo dei nuovi 10mila profughi previsti fra due settimane, il problema sarà molto grave». Il cibo fortunatamente non manca, è fornito dal Wfo (organismo mondiale per l’alimentazione). «Le persone devono arrangiarsi e razionare le dosi. Dividiamo tutto per famiglie. Ricevono fagioli, mais, olio per cucinare e una polvere molto calorica. Ma cucinare è la vera sfida. La zona scarseggia di alberi e legna, il che non consente sprechi», continua Drumtra. Ogni giorno ci sono nuovi arrivi di persone, fuggite a piedi, che giungono sfiancate alle porte del campo. Gli aiuti sono immediati. Le tende sono piazzate in poco tempo, ma hanno una resistenza limitata: «Sono care, scomode e diventano una sauna durante il giorno ma sono efficienti per un’emergenza. Durano al massimo 6 mesi, non di più. Dobbiamo prepararci per il lungo termine cominciando a costruire case tradizionali in fango che abbiano una durata di 10 anni. Oltre alle tende, ricevono il materiale essenziale all’arrivo, ma non è mai abbastanza per cui a tutti manca qualcosa». Il furto, quindi, diventa un’opzione.

profughi burundesiDrumtra non è sorpreso dalla situazione attuale del Burundi. Già negli anni Settanta e Ottanta, il Paese era stato colpito da diverse crisi che avevano provocato un numero di sfollati simile a quello attuale (circa 150mila in tutti i Paesi limitrofi) in un solo giorno. Per non parlare poi degli anni Novanta e della guerra civile, quando sono stati creati campi anche all’interno del Paese. «Questa gente scappa perché sa benissimo quello che può succedere. I timori sono due. Il primo è immediato: le milizie del Presidente, gli imbonerakuré (tradotto da kirundi: «gli uomini che vedono lontano») con le loro intimidazioni, violenze, furti. Girano voci che le strade sono bloccate e che queste milizie controllino vari movimenti sospetti. Abbiamo ricevuto sempre meno persone per questo motivo. L’altra paura è storica. La gente dice che il problema è politico e non più etnico, ma non è vero. Durante i massacri negli anni precedenti, gli obiettivi principali erano l’élite intellettuale e i giovani maschi e mariti, che oggi costituiscono la maggioranza nel campo profughi. Così molte famiglie sono divise. Sono pronti a prevenire il disastro perché conoscono la storia e non aspettano che vengano a bussare alla porta di casa», continua Jeff.

Molti sono partiti lasciando tutto. Hanno venduto i loro averi e ne hanno ricavato solitamente il 40-50% del loro valore. Insomma, anche se ci fosse un accordo politico a Bujumbura, questa gente non ritornerebbe più per paura delle milizie locali, che possono essere anche i loro vicini, che del Presidente nella capitale. Dopo i vari morti nel Paese, le voci hanno cominciato a girare e la gente non ha quindi più aspettato.

Un eventuale conflitto fa paura. Nessuno ne parla ma le cose ormai si possono tenere nascoste fino a un certo punto. Qualcuno accetta di parlare, ma anonimamente e senza nessun tipo di registratore. La paura è altissima. A Kigali ci sono stati molti incontri di ranghi alti del governo con membri delle Nazioni Unite. Ci sono milizie che si stanno armando per invadere il paese? Nessuno ne è certo, ma sicuramente qualcosa sta accadendo. “Il governo ruandese è troppo organizzato. Sanno tutto quello che succede e se accade veramente qualcosa, non è mai per caso. Il prossimo grande evento sarà a fine agosto quando finirà ufficialmente il secondo mandato Nkurunziza e comincerà il nuovo. Potrebbe quindi accadere qualcosa”, commenta una persona influente nel campo. Le granate intanto continuano ad esplodere a Bujumbura e alcuni miliziani hanno già tentato di entrare in Burundi dalla frontiera occidentale con il Ruanda. Segno che qualcosa si sta muovendo.

La situazione del campo in generale sembra comunque essere migliorata rispetto all’inizio. La situazione di emergenza è stata superata. Ora bisognerà occuparsi di dare un’abitazione stabile alle persone e occuparsi dei nuovi arrivi di agosto. Queste le principali sfide dei gerenti del campo. L’Unhcr collabora a stretto contatto con il Governo ruandese per i rifugiati. Kigali si trova ad avere sulle spalle altri rifugiati, dopo i 70mila congolesi e i nuovi arrivi di ruandesi espulsi dalla Tanzania. Ma secondo Drumtra, questo Governo «Sa quello che fa».

profughi burundesiLa popolazione all’interno del campo vive in maniera molto spartana. I servizi sono in comune e le risorse limitate. Inoltre le tende sono montate su un terreno sassoso e in pendenza, che non facilita le cose. I bambini vanno a scuola e fanno un corso integrativo per il sistema scolastico ruandese, nel quale saranno introdotti in settembre. Soprattutto fra loro sorgono le differenze di provenienza. La maggior parte dei profughi proviene da una provincia settentrionale di Kirundo, la più povera del Paese. Ma a loro si sono uniti molti provenienti da Bujumbura. La differenza fra città e campagna è enorme e si fa sentire. «Alcuni bambini non vogliono andare a scuola perché non hanno vestiti di ricambio», commenta Jeff. Bisogna gestire la situazione in modo molto cauto, qui la gente è tesa. Un ragazzo omosessuale, ad esempio, può essere discriminato dalla gente rurale. I bambini non giocano nemmeno insieme. I modi di vita sono completamente differenti come anche il linguaggio usato per esprimersi. «Qui dobbiamo condividere tutto. I servizi igienici sono un problema. Noi di Bujumbura ci comportiamo in un modo, ma quelli delle campagne non si preoccupano dell’igiene», commenta Abdaul, ragazza proveniente da Musaga, quartiere contestatario della capitale Bujumbura. Si siede nella sua tenda aspettando il rientro dei suoi due figli e di suo marito. È fortunata perché è una delle poche persone ad avere una famiglia unita nel campo.

Molti non badano a queste futilità. Quello che hanno passato è orrendo. Molta gente ha rischiato la vita per attraversare il fiume oppure è stata picchiata a sangue dagli imbonerakuré. Alcuni hanno vissuto in campi profughi durante la guerra civile e ora ci sono ritornati. Un uomo racconta che ha passato anni in un campo di sfollati in Burundi. Ora è arrivato ha cambiato regione ma è sempre in un campo. Non ne può più. «Io con il Burundi ho chiuso – dice -. Durante la guerra civile ho perso più di 40 famigliari. Ho dato troppo a quel Paese. È ora che il Presidente se ne vada, rispettando gli accordi che lui stesso ha firmato. Ho subito torture, sono stato picchiato, ma voglio che i miei figli crescano bene e che si risolva la questione. Per il futuro adesso prevedo solo la guerra».

Tamsuri è partita già in novembre, dopo aver fiutato la situazione, per andare in Kenya con la sua famiglia. La propaganda del partito l’ha però rassicurata tramite la radio e ha deciso di ritornare in patria, ma si è accorta presto che era stata ingannata. Ha quindi deciso di scappare di nuovo e vivere nella foresta, con la paura di essere scovati dagli imbonerakuré. «Un giorno ci hanno attaccati. Una persona voleva colpire con un machete mio marito. È riuscito a schivare il colpo ma mio figlio è stato colpito a morte», racconta con le lacrime agli occhi. E continua: «Siamo scappati diretti verso il confine, ma quando siamo arrivati al fiume Kagera (confine naturale con il Ruanda) era pieno di barriere. Abbiamo aspettato la notte e quando non c’era più nessuno siamo andati verso il fiume. Su una barca pure un coccodrillo ci ha assaliti, rompendo il mezzo. Per fortuna mio fratello, caduto in acqua, sapeva nuotare». Ormai dall’altra parte sapevano di essere salvi. Il Ruanda era la terra promessa.

Non molto differente è la situazione che ha subito Niela, neanche 30enne e madre di un figlio. «Siamo stati minacciati dalle milizie – ricorda -. Hanno detto a mio marito, che era membro di un partito dell’opposizione, che lo avrebbero ammazzato come avevano fatto nel 1993 con tutta la sua famiglia. Così abbiamo preso il necessario e siamo scappati». La notte che hanno deciso di fuggire sono stati scoperti. Hanno deciso di fare finta di collaborare per salvare la pelle, ma appena tornati al villaggio, hanno ritentato la fuga il mattino seguente. Quando gli imbonerakuré hanno scoperto che non c’erano più, hanno avvertito i loro complici vicino alla frontiera. «Al confine erano stati informati. Ci hanno fermati e mio marito è stato picchiato, riuscendo però a scappare sui gomiti verso il territorio ruandese. Io sono rimasta in Burundi, sono stata picchiata con un bastone, ma quando si sono allontanati ho sfruttato l’occasione per correre più che potevo con mio figlio per raggiungere il Ruanda che era lì vicino». La sua faccia è affaticata, un po’ dalla povertà ma anche dalle sofferenze dell’ultimo periodo.

Esperance invece viveva in un campo di sfollati della guerra civile. Ha perso 5 fratelli nel 1993. «Mia madre – dice – è stata massacrata a colpi di machete, mio padre è stato gettato vivo in una latrina e sotterrato vivo. L’unico fratello che mi era rimasto è morto in febbraio per mano di una granata lanciata dagli imbonerakuré. Nel nostro campo ogni notte giravano armati e andavano in ogni casa a minacciare. Dopo il colpo di Stato di maggio, sono diventati molto più minacciosi e abbiamo deciso di scappare. Per non dare nell’occhio abbiamo messo secchi in testa con dentro i vestiti. Abbiamo camminato più di 50km fino alla frontiera. Non sapevamo la direzione e alcune persone in bicicletta ci hanno detto che ci avrebbero accompagnato alla frontiera in cambio di 6000 franchi burundesi (circa tre euro). Erano d’accordo con gli imbonerakuré che ci hanno aspettati e picchiati a sangue. Poi ci hanno chiesto soldi e ci hanno derubati, come succede a tutti. In Ruanda siamo arrivati con le gambe gonfie e zoppicando. Ci hanno accolto e aiutato. Ora, almeno, posso dormire tranquilla».

La sua storia purtroppo non è un’eccezione. Le istituzioni prevedono che questo campo non chiuderà le porte presto. Alcuni calcoli dicono che rimarrà aperto almeno altri due anni. La gente è spaventata e non vuole tornare a vivere nell’insicurezza di un Paese che non riesce a trovare la stabilità, nemmeno dopo anni di guerre e stermini. Ora che hanno perso anche Agathon Rwasa, la situazione diventa sempre molto più critica per la popolazione del piccolo e tormentato Burundi. Sarà guerra? Le risposte sono sempre incerte, ma la bilancia pende per ora dalla parte di un sì.

Filippo Rossi

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