di Marco Aime
Un manufatto di “arte primitiva” in mostra: opera d’arte o reperto etnografico? Il dilemma è forse irrisolvibile
Nel 1989, Sally Price pubblicò Primitive Art in Civilized Places, che reca un titolo ancor più esplicito nell’edizione italiana: I primitivi traditi. Il tradimento starebbe anzitutto nell’inserire nel circuito dell’arte oggetti nati con finalità diverse. La valorizzazione dell’arte primitiva consiste nel trasferire i manufatti in un contesto «artistico», dice Sally Price; un oggetto creato in Africa o in Oceania diventa quindi «arte» solo quando trasferito in Occidente. Solo lo sguardo selezionatore dell’osservatore occidentale, insomma, lo rende opera d’arte, e il suo valore si basa su nostre categorie predeterminate. Quando diciamo «è un Picasso», attribuiamo a quel quadro un valore dovuto alla fama dell’artista.
Nella stragrande maggioranza dei casi, invece, l’artista primitivo è “anonimo”, un individuo privo di individualità, che rappresenta idee collettive, ispirate da forze al di fuori di lui. Parliamo di arte dogon, sculture yoruba, pitture aborigene. Poiché si sa poco o nulla di un autore, la sua opera viene considerata il prodotto di una cultura. Ecco un primo tradimento.
Quando di un’opera diciamo “è un falso”, presupponiamo l’esistenza di un originale autentico, creazione di un artista che ha realizzato solo quell’opera. L’unicità dell’opera è però un altro concetto occidentale, non necessariamente presente in altre società. Se uno scultore realizza tre maschere per una danza, non sono forse tutte e tre originali?
Alcuni anni fa a Bergamo, in occasione di una mostra di arte africana, ebbi la fortuna di conoscere Wole Soyinka. Nel corso della visita, mentre osservavamo il sapiente allestimento, giocato su tagli di luce che conferivano agli oggetti un’aura di inquietante mistero, lo scrittore si fermò davanti a una maschera e mi chiese: «Questa per te cos’è?». «Una maschera», risposi con imbarazzo a una domanda apparentemente elementare. «Per me è un bel pezzo di legno», replicò sorridendo. «Se fosse indossata da una persona e danzasse, allora sì, sarebbe una maschera».
Con quelle parole Soyinka aveva individuato una sorta di deumanizzazione dell’arte primitiva che spesso colpisce gli oggetti quando, come sostiene Sally Price, vengono «deportati» come schiavi: «Catturati, ridotti a merci, privati dei loro legami sociali, ridefiniti in nuovi assetti e ripensati per adattarsi alle esigenze economiche, culturali, politiche e ideologiche di uomini che appartengono a società distanti».
Quella maschera, a differenza di una scultura di Giacometti, non era stata concepita per essere esposta in una teca, ma per danzare. Un altro tradimento.
Il problema a cui si trova di fronte chiunque decida di esporre opere di culture lontane è la o “la non” contestualizzazione degli oggetti. Appare ovvio che nel momento in cui muovi un’opera d’arte la decontestualizzi, e ciò vale per tutte: anche la Gioconda al Louvre è fuori posto. Se ogni opera del genio umano è legata alla cultura che l’ha prodotta, allora ogni esposizione, anche la più “etnografica”, sarà sempre un tradimento. Se invece intendiamo l’arte come un valore universale, perché fa leva su emozioni e valori condivisi da tutta l’umanità, il problema non si pone e l’oggetto può vivere una sua vita indipendentemente da dove si trova. In Africa sarebbero liberi di utilizzare sculture del Cellini per danze rituali.
Tra le due posizioni, qui estremizzate, si inseriscono non solo diversi gradi di intensità verso l’una o l’altra, ma anche complesse questioni storico-politiche. Che questi oggetti siano conservati in musei e collezioni private, lontano da dove sono nati, può far nascere accuse di colonialismo culturale (e materiale).
Esporre oggetti etnografici è un po’ come tradurre un testo: ben sappiamo come il traduttore diventi talvolta, inevitabilmente, traditore. Non esiste un modo giusto: qualsiasi scelta sarà sempre il frutto di un’interpretazione. Se si espone una maschera con ricche informazioni su origine, tecniche di realizzazione, suo utilizzo e significato simbolico, si crea un oggetto etnografico. Priva di informazioni, ecco un’opera d’arte, che parla da sé, da ammirare per il suo valore estetico. Nel primo caso si può essere accusati di negare alla maschera, ridotta a reperto etnico, la dignità di creazione artistica. Nel secondo, l’accusa sarà di sottrarre, non solo fisicamente, l’oggetto al suo contesto originale, disattivandone le caratteristiche intrinseche per poi giudicarlo secondo categorie culturali predefinite.
La scelta è tra “bellezza” e “antropologia”, e come ogni scelta implica, inevitabilmente, una rinuncia.