Tunisia: 10 anni dopo, una rivoluzione a metà

di Valentina Milani

Era il 17 dicembre del 2010 quando Mohamed Bouazizi, venditore ambulante di Sidi Bouzid, si diede fuoco in segno di protesta contro gli agenti di polizia che gli avevano confiscato la merce e lo avevano umiliato. Bouazizi morì il successivo 4 gennaio, ma il suo gesto e poi la sua morte innescarono una rivolta che portò il 14 gennaio alla caduta dell’allora presidente Zine El Abidine Ben Ali. «Una rivolta, non una rivoluzione, perché non legata a un movimento politico particolare e che nasceva da questioni sociali ed economiche profonde» dice Antonino Pellitteri, docente di Storia dei Paesi arabi e Islamistica presso l’Università degli Studi di Palermo. Questioni sociali ed economiche che dieci anni dopo sono ancora lì, secondo il parere dello studioso. Bouazizi era uno dei tanti giovani che provavano a sbarcare il lunario in una città ancora oggi periferia poco sviluppata del Paese nordafricano. Questo mancato sviluppo è, secondo Pellitteri, una delle sfide più grandi e dei rischi maggiori che il governo deve ancora disinnescare.

Un parere condiviso da diversi altri osservatori, secondo i quali l’attuale quadro economico e sociale tunisino risente di fattori esterni e della mancata attuazione di riforme strutturali. Allo stesso tempo, è necessario sottolineare come quella rivolta o rivoluzione abbia portato benefici sul fronte dei diritti fondamentali, come la libertà di espressione, abbia innescato un processo politico effettivamente democratico, abbia in poche parole dato l’immagine di una Tunisia quale modello di possibile sviluppo per gli altri Paesi del bacino mediterraneo. Anche il quadro della sicurezza ha tenuto, nonostante persistano questioni connesse al terrorismo internazionale e nonostante il vicino conflitto in Libia e i sommovimenti algerini. E questo è un fattore che non può essere sottostimato. La Libia, per fare un esempio concreto, ospitava centinaia di migliaia di lavoratori tunisini, che in poco tempo hanno perso tutto; e sempre dalla Libia sono arrivati in fuga centinaia di migliaia di libici con riflessi sulla vita interna del Paese. 

«La rivolta tunisina – prosegue Pellitteri – è stata una risposta spontanea a bisogni economici e sociali sentiti. Il resto della cosiddetta Primavera araba si è invece presto rivelato un teatro di interferenze esterne e interessi internazionali». 

A dieci anni dalla precipitosa fuga di Ben Ali in Arabia Saudita, il Paese ha già sperimentato diverse tornate elettorali, ma le ultime elezioni hanno consegnato un parlamento frammentato che non è riuscito a varare un governo stabile. Dal voto del 2019, che ha visto arrivare alla presidenza Kais Saied, si sono avvicendati tre esecutivi, l’ultimo è quello guidato dal primo ministro Hichem Mechichi. Le sfide che restano sul tavolo sono le stesse che nel 2010 avevano spinto Mohamed Bouazizi ad immolarsi e i giovani a scendere in piazza. Il tasso di disoccupazione ha ormai superato il 15% e questo tasso aumenta tra i giovani e nelle regioni interne emarginate, mentre il potere d’acquisto diminuisce con l’inflazione. Allo stesso tempo, l’instabilità politica ha finora impedito l’attuazione di riforme economiche adeguate. I giovani sono la questione, sottolineano all’ufficio della Cooperazione italiana in Tunisia, ma sono anche la grande potenzialità della Tunisia: rappresentano la tensione costante verso la libertà di pensiero, dei costumi e del sapere alla ricerca determinata di una vita migliore.

È il Paese simbolo della stagione delle Primavere arabe che dieci anni fa provò a scardinare un assetto geopolitico, riuscendovi solo in parte. Ed è considerato, tra tutti, l’unico Paese a essere riuscito a portare avanti davvero un cambiamento profondo. La domanda che sorge di riflesso è: quale valutazione possiamo dare della Tunisia dieci anni dopo la Rivoluzione dei gelsomini, come fu definita più nello specifico la sollevazione dei giovani tunisini? 

( Gianfranco Belgrano – Foto di Cèline Camoin/InfoAfrica)

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