Sono oltre 14.000 i migranti arrivati sulle coste italiane dall’inizio del 2020. La maggior parte di essi è tunisina. «Il numero che ha fatto alzare l’asticella è quello che deriva dal mese di luglio, quando c’è stata una fortissima crisi politica ed economica in Tunisia e persone che non avrebbero mai pensato di abbandonare il proprio Paese e si sono avventurate verso le nostre coste», ha detto Luciana Lamorgese, ministro degli Interni, intervistata dal quotidiano Avvenire.
Perché i tunisini si imbarcano sempre più spesso verso l’Italia? In Tunisia non è in corso un conflitto e neppure un colpo di Stato e allora che cosa li porta sulle nostre coste?
Il primo motivo è certamente economico. Nel Paese maghrebino, specialmente nelle regioni dell’entroterra e del Sud, dove il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 35%, la crisi sanitaria, dettata dalla pandemia di coronavirus, ha contribuito a peggiorare notevolmente condizioni di vita già estremamente precarie. Nella regione di Tataouine (Sahara tunisino), tra le più povere del Paese, dopo il lockdown i giovani disoccupati hanno ricominciato a protestare chiedendo al governo l’applicazione di un accordo firmato nel 2017 che avrebbe dovuto garantire la creazione di nuovi posti di lavoro grazie al coinvolgimento delle imprese petrolifere che operano nella zona, tra cui l’italiana Eni a cui viene chiesto di procedere al reclutamento di manodopera locale.
A ciò si aggiunge la crisi della zona costiera. Tradizionalmente più ricca, grazie ai flussi turistici, la zona del litorale è stata duramente colpita dalla quarantena che ha bloccato gli arrivi e, con essi, le entrate. Il turismo, che rappresenta il 20% del Pil nazionale, è in ginocchio. Molte imprese rischiano il fallimento e le autorità stimano che 400.000 lavoratori della zona costiera quest’anno resteranno a casa.
La situazione economica è quindi molto delicata e lo rimarrà anche nei prossimi mesi. Secondo la Banca Centrale Tunisina, nel corso del 2020, il Pil si ridurrà del 4,3% e ciò comporterà un aumento della disoccupazione di almeno sei punti percentuali. Dal 15% al 21% della popolazione totale senza lavoro in pochi mesi. In cambio di una serie di riforme, il Fondo monetario internazionale ha concesso un prestito d’urgenza alla Tunisia di 745 milioni di dollari per «attenuare le ripercussioni della crisi sul piano umanitario, sociale ed economico in un contesto più incerto che mai» pur prevedendo «la peggiore recessione dai tempi dell’indipendenza nel 1956».
Alla crisi economica si lega una profonda crisi politica. La Rivoluzione dei gelsomini scoppiata nel 2011 ha portato una democrazia fragile, incapace, finora, di affrontare le sfide epocali del Paese. L’instabilità è culminata nella caduta, il 15 luglio, del primo ministro Elyes Fakhfakh. Il precario equilibrio politico raggiunto dopo le elezioni del 2019 si è frantumato in neanche sei mesi di governo sotto i colpi del partito islamista Ennahda.
Il 25 luglio, il presidente della Repubblica Kais Saied ha nominato premier l’ex ministro dell’Interno, Hichem Mechichi. La nomina è stata diretta, cioè senza consultazioni. Indicando un suo fedelissimo come Mechichi, il presidente ha scelto di esercitare appieno le sue prerogative di Capo dello Stato e di ricoprire un ruolo non cerimoniale. Evitando la riproposizione della «grande coalizione» su cui si era retto il Paese nella passata legislatura, Saied punta a conservare il suo potere di indirizzo nella politica nazionale e la possibilità di dettare (almeno parzialmente) l’agenda al governo.
Mechichi ha adesso a disposizione fino alla fine di agosto per formare un governo in grado di superare il voto di fiducia del parlamento. In caso contrario, il presidente Saied sarà costretto a sciogliere le camera e indire nuove elezioni. «Lavorerò per formare un governo che vada incontro alle aspirazioni di tutti i tunisini e risponda alle loro legittime domande», ha dichiarato Mechichi. Lo richiede la situazione delicata del Paese.
(Enrico Casale)