Atig. Questa parola, che compare talvolta nei cognomi arabi, ha un significato preciso. Vuol dire: liberato da. Informa che la persona che porta quel patronimico appartiene a una famiglia di liberti, ex schiavi a cui il padrone ha reso la libertà. Chouchane è un altro pezzetto di cognome rivelatore. In questo caso dice del legame di schiavitù non dissolto. Sono termini ricorrenti tra i tunisini neri e hanno costituito a lungo un’eredità pesantissima. Adesso però qualcosa è cambiato. Hamdane Dali, 81 anni, si è visto riconoscere dal tribunale di primo grado di Medenine, la principale città della Tunisia sudorientale, il diritto di cancellare dai documenti suoi e dei suoi discendenti la parola quell’ “atig” così ingombrante e umiliante. È stata una battaglia lunga, tutt’altro che lineare. Nel 2017 la richiesta, presentata dal figlio Karim, era stata respinta. Eppure la Tunisia è stato uno dei primi paesi al mondo ad abolire sulla carta la schiavitù: nel 1846, prima di Francia e Stati Uniti, e anche prima dell’impero ottomano (che avrebbe preso la decisione 11 anni dopo).
Non solo: a ottobre 2018, Tunisi ha adottato una legge prevede tre anni di reclusione e una multa da 5000 per chi pronuncia discorsi d’odio e/o incita al razzismo e alla discriminazione. Il 23 gennaio 2020, poi, la Tunisia è diventata il primo paese del Maghreb, e il secondo del continente africano, a celebrare l’abolizione della schiavitù. Tappe importanti ma che per molti versi rimangono puramente teoriche. Non a caso, infatti, la questione del cognome sembrava irrisolvibile. Non per cavilli burocratici. C’è un problema culturale serio che richiede ancora molto impegno e determinazione. Le ong tunisine impegnate nella lotta contro le discriminazioni rivolte ai neri rilevano che c’è ancora parecchia strada da fare, nonostante la vittoria del vecchio Hamdane. C’è un rifiuto endemico, sistemico verso i tunisini neri che si accompagna a una rimozione della storia e del ruolo che la popolazione nera ha avuto nelle vicende del paese. A cominciare da Annibale, che era nero ma nell’iconografia tunisina viene rappresentato regolarmente con tratti nordafricani.
Saadia Mosbah, attivista e leader dell’associazione M’nemty (che vuol dire: questo è il mio sogno), lo sostiene da tempo: «La Tunisia deve riconoscere la sua africanità». Fin dalla sua creazione, M’nemty ha lottato per porre fine a questa discriminazione e ha chiesto la creazione di una commissione patronimica nazionale. «Le autorità non hanno mai affrontato la questione, non vi è alcun riconoscimento della pluralità della società tunisina, della sua africanità, della sua multiculturalità e della sua multietnicità», ha dichiarato Mosbah al quotidiano francese La Croix. All’interno del Parlamento fa eccezione Jamila Ksiksi, che non a caso è l’unico membro nero.
La presenza storica dei neri in Tunisia, indipendentemente dalla tratta degli schiavi, è un fatto sconosciuto ai tunisini, ha sottolineato l’etnologa Inès Mrad-Dalì, autrice di una tesi sui tunisini neri. Così è la storia della schiavitù e del coinvolgimento degli arabi nella tratta degli schiavi trans-sahariana. «Questa storia tunisina resta da scrivere ed esorcizzare», ha detto l’antropologa Stéphanie Pouessel, autrice dello studio I neri nel Maghreb. Problemi di identità. La sentenza del Tribunale di Medenine, al di là del valore simbolico, ha comunque un immediato effetto pratico: apre la strada a procedure simili per altri tunisini. In particolare, come evidenziato dall’associazione Minority Rights International Group, bambini neri che potranno a loro volta cambiare nome e scegliere la propria identità, senza portarsi dietro, scritta sulla carta di identità, una condizione di asservimento assolutamente fuori dal tempo.
(Stefania Ragusa)