È stato il Paese simbolo della stagione delle Primavere arabe. Ed è considerato da molti osservatori l’unico ad essere riuscito a portare avanti davvero un cambiamento profondo. Eppure le tensioni politiche in Tunisia non si sono sopite e la rimozione dal suo incarico, ieri, del ministro dell’Interno Taoufik Charfeddine è l’ultimo atto di una seria difficoltà a mantenere coesione anche nella compagine dell’esecutivo guidato da Hichem Mechichi.
«La rivolta tunisina – dice a Antonino Pellitteri, docente di Storia dei Paesi Arabi ed Islamistica presso l’Università degli Studi di Palermo – era stata una risposta spontanea a bisogni economici e sociali sentiti. Il resto della cosiddetta Primavera araba si era invece presto rivelato un teatro di interferenze esterne e interessi internazionali». Il differente scenario tunisino ha poggiato sulla presenza di sindacati, su una tradizionale forza della società civile, su un percorso storico che già aveva visto la popolazione scendere in piazza per difendere i propri diritti. «Il prodotto di quella rivolta – sottolinea ancora Pellitteri – è oggi un allargamento delle maglie nel campo della libertà di espressione, dell’azione politica, della vita sindacale e associativa. Però tutto questo è stato generato in un contesto dominato da problematiche economiche e sociali, preoccupazione per il futuro, timori legati alla fragilità del contesto regionale che hanno effetti immediati sulla tenuta politica del Paese». Un quadro che, sottolinea ancora lo studioso, «non consente una piena coscienza del cambiamento intercorso e dei risultati comunque raggiunti» e che è stato reso più complicato dal covid e dalle conseguenze che questo ha avuto su settori nevralgici a partire dal turismo.
Con una campagna elettorale improntata alla lotta alla corruzione e con un esplicito richiamo ai giovani, nell’ottobre del 2019 Kais Saied, professore di diritto in pensione, aveva vinto le elezioni presidenziali battendo il magnate dei media Nabil Karoui (che di recente ha avuto problemi con la giustizia). Saied ha preso il posto di Beji Caid Essebsi che dal 2014 sedeva sulla poltrona più importante della Tunisia e che era scomparso ancora in carica nel luglio del 2019.
Lo stesso anno si sono tenute le seconde elezioni legislative dalla caduta dell’ex capo di Stato Zine el Abidine Ben Ali. A fronte di una bassa affluenza alle urne, il risultato del voto ha consegnato un parlamento frammentato, con nessuna forza politica riuscita ad ottenere una maggioranza vera. Il primo partito è stato Ennahda che ha ottenuto 52 dei 217 seggi disponibili, seguita da Qalb Tounes di Karoui (38 seggi). Al nuovo Destour, formazione vicina al vecchio gruppo dirigente, sono andati invece 17 seggi. Questa frammentazione si è riflessa nell’incapacità di dar vita a governi forti e nella necessità di varare un governo del presidente. Il governo di Hichem Mechichi è il terzo esecutivo varato dalle elezioni dell’ottobre del 2019. La fiducia all’esecutivo di Mechichi è stata votata lo scorso settembre. Alla guida di un governo tecnico, Mechichi ha in programma il varo di riforme chieste a gran voce dalle istituzioni internazionali.
(Gianfranco Belgrano)