Un chicco di grano, di Ngũgĩ wa Thiong’o

di AFRICA
Un chicco di grano, di Ngũgĩ wa Thiong'o

Ogni vent’anni, Jaca Book (adesso attraverso il suo marchio Calabuig) – editrice benemerita per la sua copiosa immissione di titoli africani in Italia fin dagli anni Settanta – pubblica una nuova edizione di questo che non è solo uno dei romanzi più importanti di Ngũgĩ ma anche un classico della letteratura africana. L’azione si svolge nei giorni che precedono l’Uhuru, la dichiarazione d’indipendenza del Kenya, fino a quel giorno stesso, 12 dicembre 1963. Un arco temporale che però, grazie ad abili giochi di flash-back (che richiedono l’attenzione vigile del lettore), si estende al decennio precedente, quello dello stato d’emergenza dichiarato dal governo britannico a motivo della ribellione dei Mau Mau.

È netta la scelta di campo dell’autore per «il popolo nero», che è il suo, con la conseguente denuncia delle atrocità fisiche e psicologiche inflitte dal colono. Ma l’epica che ne scaturisce non è retorica. Siamo in un romanzo all’insegna della coralità – come subito avverte nella sua ampia Introduzione Marco Grampa, che è stato traduttore anche di Chinua Achebe, di Soyinka… – dove però il singolo ha la propria personalità, storia, virtù e debolezze. Un romanzo che a poco a poco assume anche il carattere di un giallo: chi avrà tradito Kihika? E proprio costui, l’autentico eroe di Thabai, prima di essere impiccato s’interrogava: «Ma che cos’è un giuramento? […] Ci sono quelli che non terranno mai un segreto se non per il vincolo di un giuramento. […] In ogni caso, quanti hanno giurato e ora leccano i piedi dell’uomo bianco? No, si giura per confermare una scelta già fatta. La decisione di offrire la tua vita per il popolo sta nel cuore. Il giuramento è l’acqua versata al battesimo sulla testa di un uomo».

Metafora cristiana presente qui e in molti passi del libro, il quale è scandito da citazioni bibliche in una sorta di teologia della liberazione ante litteram, e a partire dal titolo stesso dell’opera (Giovanni 12,24-25). Questo, malgrado l’accusa frontale portata al colonialismo missionario – è proprio in questo libro che troviamo la celebre frase ripresa da tanti, Desmond Tutu compreso (che però la discute): «Disse: inginocchiamoci e preghiamo. Ci inginocchiammo. Mubia disse: Chiudiamo gli occhi. Lo facemmo. […] Quando riaprimmo gli occhi la nostra terra se n’era andata […] Quanto a Mubia, continuò a leggere la parola, implorandoci di mettere i nostri tesori nel cielo dove la tignola non li avrebbe attaccati. Ma lui poneva i suoi nella terra, la nostra terra».

E c’è dell’altro, molto altro, in questo romanzo fondatore. Scritto tre-quattro anni dopo l’Uhuru, Ngũgĩ già vi anticipa le delusioni che cominceranno a manifestarsi poco dopo I soli delle Indipendenze (e infatti il romanzo di Ahmadou Kourouma è praticamente simultaneo a Un chicco di grano). «E so che anche adesso questa guerra non è finita – proclama il “generale R.” nell’orazione semi-improvvisata davanti alla folla, nel pomeriggio dell’Uhuru –. Domani chiederemo: dov’è la terra? Dov’è il cibo? Dove sono le scuole? Perciò che si facciano ora queste cose, perché non vogliamo un’altra guerra… niente più sangue sulle mie… su queste nostre mani…».

Uno di quei libri che, quando hai finito di leggerlo, hai voglia di riaprirlo e di ricominciarlo, perché ti rendi conto di quanti fili ci sono da riprendere e da seguire, cui a una prima lettura non avevi prestato sufficiente attenzione.

Calabuig, 2017, pp. 309, € 18,00

(Pier Maria Mazzola)

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