A bordo di una leggendaria nave che da settant’anni solca le acque del Lago Malawi. Dal 1951 la motonave Ilala naviga su e giù per il Lago Malawi raggiungendo remote località per le quali rappresenta l’unico mezzo di collegamento con il resto del mondo. Ci siamo imbarcati anche noi su questo glorioso traghetto assieme a una moltitudine di persone, cose e animali. È stato un viaggio indimenticabile…
di Marco Trovato e Irene Fornasiero
Ai tropici il sole non tramonta: precipita all’orizzonte come un piombo rovente. Gli ultimi raggi del giorno scompaiono in un attimo, come le stecche di un ventaglio che si richiude all’improvviso. Di colpo cade la notte sul Lago Malawi. La sagoma dell’Ilala luccica sotto la luna piena. Dalla spiaggia di Nkhotakota pare una balena bianca, esausta, che si riposa nelle acque placide della baia. Il richiamo della sirena ha radunato centinaia di persone sulla riva, alcune sono già assiepate in canoe di legno e piccole imbarcazioni dall’aria malconcia. I barcaioli urlano concitati, hanno fretta: faranno la spola tra la nave e la terraferma guadagnando qualcosa a ogni viaggio. La flotta si avventa verso il traghetto ancorato a forse cinquecento metri dalla costa. Come in una regata, si lotta per le prime posizioni.
All’arrembaggio
Raggiunta la meta, parte l’arrembaggio. Per salire a bordo ci si deve inerpicare su per una sgangherata scala di corda che oscilla sulla chiglia sfiorando l’acqua. Non c’è tempo per esitare. La folla preme, freme, abbaia rabbiosa. Sembra un assalto piratesco. O uno sport estremo. Nessuna pietà per chi indugia: una donna con un neonato stretto sulla schiena tradisce una lieve incertezza e viene scaraventata sulla nave tra le imprecazioni di chi ha fretta di salire. I bambini più piccoli passano di mano in mano, lungo una catena umana che ondeggia; li vedi penzolare nel vuoto, i corpi impietriti dal terrore, gli occhi sgranati come abbaglianti che squarciano l’oscurità. I bagagli vengono lanciati come proiettili. Valigie, cartoni, pacchi, enormi fagotti disegnano parabole nell’aria e atterrano sul ponte con boati fragorosi. Volano gabbie di polli, capre atterrite, maialini urlanti. Nulla finisce in acqua.
Mentre la ciurma dei nuovi arrivati tenta di imbarcarsi infilandosi in minuscoli pertugi, in direzione opposta si muove la massa compatta dei passeggeri giunti a destinazione, fermamente decisi a scendere dalla nave coi loro fardelli. Lo scontro titanico tra le due immani forze contrarie provoca una situazione di stallo e tensione. Si finisce bloccati in un corridoio buio: aggrovigliati in un intrico di persone e cose, avviluppati in una ragnatela di mani che si cercano e si perdono, imprigionati da un coacervo di umanità sbraitante e di animali dall’aria esausta. Nessuno si prende la briga di tentare di portare ordine.
Si procede a spallate in stretti passaggi ingombri all’inverosimile. Passo dopo passo si guadagnano centimetri preziosi. Facendo attenzione a non calpestare nessuno e a non farsi sopraffare dalla folla. Ostentando e incrociando mille sguardi: rancorosi, supplichevoli, sdegnati, imbarazzati, rassegnati. La bolgia finisce non appena riesci a raggiungere il ponte superiore. A quel punto realizzi di avercela fatta. E inizi a goderti il viaggio.
Una storia gloriosa
La leggendaria motonave Ilala (porta il nome della regione dove fu sepolto l’esploratore scozzese David Livingstone) viaggia sul Malawi, il terzo più grande lago d’Africa (580 chilometri nel senso della lunghezza e largo al massimo 75). Ogni settimana salpa dal porto di Monkey Bay, sulla costa meridionale, e si dirige a nord, navigando nelle acque territoriali di Malawi e Mozambico, fin quasi a raggiungere il confine tanzaniano. Giunta a destinazione, inverte la prua e compie lo stesso itinerario in senso inverso. La sua storia è iniziata in epoca coloniale.
Costruita nel 1949 sul fiume Clyde a Glasgow, in Scozia, nei cantieri navali Yarrow Shipbuilders, l’imbarcazione – cinquantadue metri di lunghezza per una stazza lorda di 620 tonnellate – fu smembrata in centinaia di pezzi, trasportata via mare fino al porto di Beira, in Mozambico, e di là portata in ferrovia fino al lago, che all’epoca si chiamava Niassa (da cui prendeva nome il protettorato britannico del Niassaland), dove venne nuovamente assemblata con bulloni e fiamma ossidrica. Il suo primo viaggio è datato 1951. Da quel momento ha continuato a navigare in questo mare interno incuneato all’estremità meridionale della Great Rift Valley, la vasta frattura che attraversa l’Africa orientale.
Viaggio imprevedibile
In settant’anni di onorata carriera ha trasportato missionari, avventurieri, rivoluzionari, mercanti, moribondi, miriadi di persone comuni. Con il suo incessante andirivieni si stima abbia finora percorso oltre cinque milioni di chilometri. «Si è fermata solo in casi eccezionali, per riparazioni importanti o manutenzioni straordinarie», mi spiega sul ponte di comando Captain Blessing, un uomo di mezza età dall’aria imperscrutabile, stretto in una giacca abbottonata di cotone beige. Non ricorda nemmeno più l’ultima volta che è accaduto. Nel suo sforzo di pensare, gli si disegnano due rughe profonde tra le sopracciglia sottili. «L’Ilala è troppo importante per potersi arrestare, la vita di decine di migliaia di persone dipende da questa nave», aggiunge l’ufficiale al timone.
Lungo il suo tragitto, l’Ilala tocca una dozzina di località, compresi alcuni remoti villaggi e due sperdute isole in mezzo al lago (Likoma e Chizumulu) per le quali la nave rappresenta l’unico collegamento con il resto del mondo. La gran parte delle fermate non dispone di porti dove attraccare, cosicché il traghetto è costretto a gettare l’ancora a qualche centinaio di metri dalla riva. Le operazioni di trasbordo vengono effettuate con l’aiuto di pescatori su piccoli natanti. Impossibile prevedere la durata delle soste: a seconda del carico e delle condizioni meteo, possono protrarsi anche per ore o intere giornate. I ritardi sulla tabella di marcia sono da mettere in conto. Come i contrattempi.
Il risveglio
Non è certo una crociera turistica, ma navigare sull’Ilala può essere un’esperienza entusiasmante. «Mollare gli ormeggi, avanti tutta!», ordina il capitano. Nel ventre della nave i macchinisti maneggiano leve e valvole per avviare il motore. Da tempo la vecchia caldaia a vapore è sostituita da un propulsore a diesel, il fumaiolo sbuffa batuffoli grigi che tracciano nell’aria una lunga scia. «Il vento è cambiato, ha preso a soffiare da nord», mi fa notare un marinaio. «Segno che sta arrivando la stagione delle piogge». Tra pochi giorni, enormi nuvoloni scaricheranno la loro energia sul lago formando onde spaventose che sferzeranno lo scafo dell’Ilala. Al momento non c’è da preoccuparsi. Le acque sono tranquille, il cielo è sgombro e la luce dell’alba promette un’altra giornata di sole.
I passeggeri della prima classe, una dozzina in tutto, fanno colazione a omelette e caffè caldo. Nella piccola sala ristorante c’è un prete anglicano in viaggio pastorale, due funzionari pubblici in missione per conto del ministero dell’Agricoltura, un paio di uomini d’affari accompagnati dalle rispettive amanti e una coppia di tedeschi impegnati in programmi di cooperazione sanitaria in Malawi (gli unici bianchi, assieme agli autori di questo reportage, tra le quattrocento persone a bordo dell’Ilala, compresa le quaranta dell’equipaggio). L’atmosfera è rilassata, niente a che vedere con il bailamme dell’imbarco notturno. Lo sciabordio dell’acqua che s’infrange contro la chiglia taglia un silenzio irreale. In ogni direzione lo sguardo si perde su una smisurata distesa d’acqua, tanto grande da sembrare un mare.
Due giovani dalla faccia sconsolata se ne vanno in giro coi loro cellulari in mano, li muovono nell’aria come rabdomanti in cerca di una folata che possa rianimare i loro social network. Non va meglio all’addetto alle telecomunicazioni nella plancia di comando: «Qui Motor Vessel Ilala, ci dirigiamo verso nord. Nkhata Bay ci sentite?», ripete come un mantra nel ricetrasmettitore, ma la radio restituisce solo delle scariche elettriche. «Siamo nel bel mezzo del lago, lontani da tutto», sospira il marconista come per scusarsi.
Sulla tolda, decine di passeggeri stesi per terra sono ancora avvolti nelle loro coperte, faticano a svegliarsi, come crisalidi che tardano a schiudersi. I primi a rianimarsi sono dei musulmani che srotolano i loro tappeti e iniziano a pregare. Non lontano, due energumeni storditi dall’alcol se ne stanno accasciati su un bancone ingombro di bottiglie vuote. Steve, barista di poche parole e dallo sguardo malinconico, non si scompone. «L’unica cosa che mi preoccupa è il frigorifero che si è rotto», dice. «Sarà una giornata rovente e dovrò servire birra calda».
Un mondo galleggiante
Sul traghetto ci si muove a fatica, prestando la massima attenzione a dove si mettono i piedi. In ogni dove c’è qualcuno steso a riposare. La densità di popolazione aumenta a mano a mano che si scende ai ponti inferiori. Nei torridi compartimenti della terza classe la gente se ne sta pigiata su panche di legno, una fila davanti all’altra, le ginocchia incastrate tra loro come tessere di un puzzle. Dalla sala macchine proviene un rumore insopportabile, bisogna urlare per farsi sentire. All’ora di pranzo si sprigionano vapori e afrori di ogni tipo. In pochi metri quadri, una donna dal volto imperlato di sudore cucina fagioli su un fornetto a carbonella, un’altra frigge pesciolini in una pentola di olio bollente, due signore imponenti mescolano polenta di mais dentro un paiolo annerito. Una gallina con la zampa legata a un tavolo osserva preoccupata la scena.
Anche il ponte di prua è stipato: ci sono almeno trenta bidoni di benzina (pericolosamente vicini a un tizio dall’aria annoiata che fuma come un turco), un letto matrimoniale, una scrivania, quattro capre (ne resteranno due al termine del viaggio), due enormi pesci barbigli, sacchi di patate e mais, cesti di cipolle e pomodori, una motocicletta cinese, un televisore a led, tubi, mattoni, biciclette… E così via. «I passeggeri sono in gran parte piccoli commercianti», mi spiega un mozzo. «La nostra nave tiene a galla un’economia informale che sfama decine di migliaia di persone». Ha ragione. I pendolari dell’Ilala compiono più volte al mese lo stesso itinerario: partono carichi di mercanzie e se ne tornano a casa dopo aver venduto tutto, per poi reimbarcarsi con nuovi prodotti da smerciare.
I traffici non si fermano mai, come, del resto, i passeggeri a bordo. Coi loro movimenti perpetui sembrano una marea umana che sale e scende, scandendo i momenti della giornata. Quando il sole picchia senza pietà, si rifugiano sottocoperta in cerca d’ombra, intontiti dall’aria calda e satura di umidità. Occupano ogni pertugio disponibile e affondano in uno stato di torpore profondo, cullati dallo sciacquio delle onde. Giacciono immobili nelle posizioni più diverse, apparentemente esamini, indifferenti a tutto e tutti. Chi dorme della grossa, chi se ne sta accasciato a terra con lo sguardo inebetito, fisso nel nulla, assorto in chissà quali pensieri.
Gran finale
Solo nel tardo pomeriggio, quando il caldo attenua la sua oppressione e dal lago si alza una leggera brezza, la gente torna a dare segni di vita: a poco a poco riprende forza e lucidità… quanto basta per riversarsi in massa sul ponte superiore. Gli uomini dell’equipaggio tentano di impedire questa migrazione interna all’Ilala: sbarrano con corde e catene i passaggi delle scale tra un ponte e l’altro. Tutto inutile. Ad ogni viaggio i marinai devono arrendersi all’anarchia o, meglio, all’autogestione dei passeggeri, che tuttavia non assume mai le sembianze di un caos incontrollato.
Solo quando la nave raggiunge uno scalo scoppia di nuovo il trambusto. Tornano le urla e la frenesia dei barcaioli, l’agitazione della gente accalcata ai parapetti, la battaglia per conquistare il posto, lo strepitio dell’argano che cala le lance di salvataggio, usate anche quelle per portare a riva un po’ di passeggeri. Per primi vengono fatti calare due uomini sofferenti che viaggiano in barella, recuperati in qualche villaggio e trasferiti d’urgenza al più vicino ospedale: gli unici a cui venga risparmiata la feroce lotta per la conquista della terraferma.
Donne e bambini stanno ammucchiati nelle scialuppe tra caterve di bagagli affastellati in qualche modo. Un predicatore evangelico troneggia in precario equilibrio tra i flutti delle onde, agitando infervorato la Bibbia e invitando senza successo i passeggeri a lodare il Signore. Nella confusione infernale, un uomo con un piatto sulle ginocchia continua imperturbabile il suo pranzo mentre tutt’intorno si sbraita e ci si dimena. Ci infiliamo pure noi dentro una barca gremita di gente, cose e animali. Siamo a destinazione. Ci dirigiamo verso una spiaggia dov’è assiepata un’altra folla trepidante.
Alle nostre spalle, l’Ilala biancheggia sull’acqua turchese, elegante e maestosa. La ruggine dello scafo non ne offusca la bellezza sfavillante, come le rughe di una donna di classe che malgrado l’età sprigiona un fascino seducente.