«Vero, verissimo che l’immagine dell’Africa prevalente nella narrazione italiana è monca, falsata e nutrita di luoghi comuni. Proprio per questo la scelta di dedicare questa edizione di Bookcity alle Afriche, invitando a Milano scrittori e studiosi di grande spessore, merita il nostro plauso e la nostra attenzione». Alessandra Di Maio insegna Letteratura Inglese all’Università di Palermo e da molti anni occupa di studi postcoloniali, migratori e della diaspora nel campo dell’africanistica. Ha tradotto autori come Nuruddin Farah e Wole Soyinka. Recentemente, insieme con la traduttrice Gioia Guerzoni, ha assunto la direzione di una collana dedicata ad autori “dall’Africa” per la casa editrice Brioschi ( i primi titoli sono attesi per la primavera 2020). È insomma una voce autorevole nel campo della letteratura e delle culture del continente. Ed è anche ottimista.
«Dalla mia postazione – la cattedra universitaria – mi rendo conto ogni giorno di quanto interesse provino gli studenti verso questi temi. Non si fermano ai nomi più grandi. Vogliono scoprire e sapere di più: in campo letterario, artistico, politico. Bookcity sta rendendo un servizio utile a tutti, ma ha ovviamente anche intercettato una tendenza. In un Paese come l’Italia, che non è certo di grandi lettori, questo è un segnale significativo».
Quando l’Italia ha cominciato a prestare attenzione agli autori africani? «Direi alla fine degli anni’70 e poi più compiutamente negli anni ’80. C’era un grande interesse, favorito anche dalle vicende politiche, per quel che proveniva dall’Africa. E c’era un fermento accademico che incoraggiava le innovazioni editoriali. Le case editrici, prima le piccole poi le maggiori, iniziarono a dare alle stampe i testi letterari più importanti, che ben presto diventano classici anche in Italia. Jaca Book pubblica Wole Soyinka, Ngugi wa Thiong’o, i romanzi di Chinua Achebe, poi ripresi dagli Oscar Mondadori. La letteratura africana entra nelle case dei lettori e nelle università. La scuola di Torino, capitanata dall’ormai defunto Claudio Gorlier, autore delle prime introduzioni ai classici, si fa promotrice di questa piccola rivoluzione, seguita da Venezia, Palermo, Milano, Roma. Negli anni successivi si susseguono altre iniziative editoriali. Edizioni Lavoro, Epoché, L’Harmattan Italia, Ibis danno il loro contributo allo sviluppo delle nuove letterature africane, soprattutto nelle lingue coloniali. Ma c’è attenzione anche nei confronti della letteratura tradizionale. Mondadori pubblica i racconti yoruba di Daniel. O. Fagunwa. Adelphi traduce Amos Tutuola, mai uscito fuori stampa».
E adesso in che situazione ci troviamo? «In una fase di nuovo interesse, rivolto non soltanto ai classici ma anche a una nuova generazione di scrittori che possiamo definire transnazionali, impegnati a raccontare l’Africa dal loro punto di vista, ma in una cornice di appartenenze più intricata e complessa, che inevitabilmente tocca anche il tema delle migrazioni. Pensiamo ad autori come Chimamanda Ngozi Adichie, Teju Cole o Alain Mabanckou. A pubblicare gli autori africani sono ancora le grosse case editrici, come Einaudi o l’ormai consolidata La Nave di Teseo, ma anche realtà di nicchia, come 66thand2nd, che dagli esordi ha proposto romanzi e testi svariati di grande interesse, come l’antologia Migrazioni/Migrations che mette in dialogo la tradizione poetica nigeriana e quella italiana. E poi altre opere sono inserite in cataloghi con un’ampia apertura internazionale – penso per esempio a E/O con Ahmadou Kourouma, a Sellerio con Mia Couto».
In Italia, c’è molto interesse anche per scrittori migranti e i cosiddetti afroitaliani. A volte sembra però che si presti più attenzione alla vendibilità dei personaggi che non alla qualità delle proposte «È una cosa che accade spesso nell’editoria, gli afroitaliani non fanno eccezione. La propensione a creare fenomeni invece che cultura certamente disturba, ed è in parte responsabile della venatura essenzialista che si ritrova tra alcuni giovani autori. Tra gli scrittori della generazione precedente non c’era traccia di questo tipo di ragionamento. Pensiamo a Pap Khouma (che con Io venditore di elefanti ha inaugurato il filone, nel 1990) o a una figura dallo spessore letterario di Cristina Ali Farah. Per fortuna ci sono diversi giovani autori validi, che rifuggono da ogni schematismo».
Ci può fare qualche nome? «Trovo molto interessante e dotata Djarah Kan, che è anche una cantante, e in questi anni ha veicolato i suoi scritti attraverso il blog Kasava Call. Da tenere d’occhio è anche il rapper Amir Issaa, che ha da poco pubblicato Vivo per questo con la casa editrice Chiarelettere, un libro scritto in prima persona, che parla della sua vita e della fatica di crescere in un Paese che non è quello dei propri genitori».
Quali appuntamenti di Bookcity considera imperdibili? «Mi verrebbe da rispondere: tutti. In calendario ci sono incontri con nomi davvero di primo piano, come quello col sommo decano delle lettere africane, il Nobel Wole Soyinka o quello con l’ormai notissima Chimamanda Ngozi Adichie, che ci suggerisce di guardarci dal pericolo di reiterare una storia sola. Bookcity ci offre dunque un’occasione importante per ascoltare soprattutto le voci di chi viene dall’Africa, offrendoci tasselli da aggiungere alla nostra visione ancora parziale di un immenso continente, ma anche di chi studia l’Africa da tanti anni, come Jean-Loup Amselle ed altri. Ogni incontro rappresenta un’occasione preziosa di scoprire lati inediti delle culture africane e di aggiungere una nuova tessera al proprio personale mosaico di conoscenza. Il consiglio che vorrei dare è quindi di sfruttare nel modo migliore il tempo e questa opportunità. E poi di prepararsi a prendere in considerazione anche aree di letteratura africana non ancora compiutamente esplorate: il teatro e la poesia, per esempio. Bookcity, con le sue Afriche, può essere una bella rampa di lancio».
(Stefania Ragusa)
Immagine d’apertura: Seydou Camara, Les manuscrits de Tombouctou, esposta alla Biennale di Fotografia di Bamako, 2015