L’appassionante viaggio lungo quattro anni di un giovane marocchino attraverso l’Africa. Da un capo all’altro del continente africano. A piedi, in bici, su skateboard. Uno studente ventenne del Marocco ci ha messo 1.338 giorni. Alla partenza, aveva 80 dollari in tasca, nello zaino un sacco a pelo e una videocamera. Durante il viaggio è accaduto di tutto. La sua impresa è diventata un documentario, avvincente come un film d’avventura. A noi ha raccontato i retroscena e i momenti più memorabili
di Marco Trovato – foto di Othmane Zolati
Quando ha avvistato il faro di Capo Agulhas, estrema propaggine del Sudafrica, non è riuscito a trattenere le lacrime. Davanti aveva l’oceano, che brillava come i suoi occhi. Tra i flutti che s’infrangevano sulle scogliere del punto più meridionale del continente africano ha capito di avere compiuto la sua impresa. «Non era un miraggio», rivive ad alta voce l’emozione di quel magico momento. «Ero riuscito ad arrivare fino in fondo. Non ci potevo credere. Per tanto tempo avevo desiderato di raggiungere quella meta tanto agognata. Ora ero finalmente lì. Il cuore era impazzito. Piangevo di gioia. Pensavo alle migliaia di persone incontrate durante il viaggio: ai tanti che mi avevano incoraggiato e aiutato. E a quelli che mi avevano considerato un pazzo o mi avevano predetto sciagure e fallimenti. Ce l’avevo fatta: avevo davvero realizzato il mio sogno».
Nuovi orizzonti
Il sogno era iniziato quattro anni prima. Othmane Zolati, studente ventenne, aveva lasciato la sua città natale, El Jadida, a sud di Casablanca, con un progetto folle: attraversare l’intera Africa. «Avevo concluso gli studi di ingegneria con la prospettiva di un’assunzione, ma ero nauseato dall’idea di passare il resto della mia vita a lavorare in un ufficio. Otto ore seduto davanti a un computer, a fare riunioni, con il telefono sempre a portata di mano. E l’attesa dello stipendio a fine mese. La routine mi spaventava. Avevo capito che quella vita non faceva per me… Ero irrequieto. Cercavo altro, nuovi stimoli, nuove ambizioni, nuovi orizzonti», ci racconta il giovane marocchino. «Un giorno stavo osservando una mappa su Google. L’occhio mi cadde sull’estremo lembo meridionale dell’Africa. Era l’ultima frontiera del mio continente. Affascinante, magnetica. Per qualche irrazionale motivo decisi di mettermi in marcia per arrivare fin là».
Non fu facile dirlo ai genitori. «Mia madre scoppiò a piangere e iniziò a farmi un elenco infinito di pericoli a cui sarei andato incontro». Per il padre fu un duro colpo. «Aveva fatto sacrifici per farmi studiare, si immaginava un futuro tranquillo per me… posto fisso, casa, famiglia. Gli servì un po’ di tempo per digerire le mie parole. Ma alla fine mi diedero la loro benedizione, che per me era fondamentale. Dissero: “Se è quello che vuoi, se ti fa sentire felice, parti pure. Noi saremo qui ad aspettarti al tuo ritorno”».
Senza tabella di marcia
La mattina del 29 gennaio 2015 Othmane salutò la famiglia, gli amici, il suo gatto. E partì diretto a sud. Era un ragazzino coi capelli rasta, la pelle color caramello e i primi peli sul viso. Pantaloncini corti e camicia sbottonata. In tasca, 80 dollari. Nello zaino, un sacco a pelo, una piccola tenda e una videocamera con cui riprendere i momenti cruciali del lungo viaggio alla scoperta del continente. Lo avrebbe attraversato da un estremo all’altro, spostandosi a piedi, in bici, in skateboard. Avrebbe usato i mezzi di trasporto pubblici e cercato passaggi su camion, piroghe, asini, carretti trainati da buoi. Avrebbe raccontato l’avventura in presa diretta tramite i suoi canali social. Ad ogni tappa avrebbe cercato ospitalità, rifugi di fortuna, posti dove campeggiare.
Per pagarsi l’occorrente – trasporto, vitto e alloggio – avrebbe fatto dei lavoretti. Il viaggio andava guadagnato, meritato, conquistato pezzo a pezzo. Non aveva fretta. Non si era dato una tabella di marcia. Avrebbe impiegato il tempo necessario, affrontando di volta in volta gli imprevisti e le difficoltà che si sarebbero presentati. Senza ansie. Con la leggerezza dei suoi vent’anni. Mai prima di allora era uscito dai confini nazionali.
Senegal e Zanzibar…
«Può sembrare strano, ma gran parte dei marocchini non pensa che il nostro Paese faccia parte dell’Africa. Ha la sensazione di vivere in un “mondo a parte” proiettato verso l’Europa e intriso di cultura araba», ci confida. «Agli occhi di tanti miei connazionali la parola Africa è sinonimo di povertà, malattie, disgrazie, guerre. Nutriamo, come voi occidentali, di tanti pregiudizi e stereotipi nei confronti di un continente sconosciuto che fa paura».
Nel corso del suo viaggio, Othmane avrebbe progressivamente infranto cliché e luoghi comuni. Conosciuto innumerevoli popoli e culture, scoperto un mondo pieno di contrasti e ricco di diversità, preso coscienza, pian piano, di appartenere all’Africa. «Forse sono stato fortunato, ma nel mio lungo peregrinare ho incontrato tantissima gente che mi ha accolto con calore, aprendomi le porte di casa, sfamandomi, dissetandomi, prendendosi cura di me. In ogni dove ho toccato con mano l’ospitalità, la generosità, sincera curiosità nei miei riguardi. Ho ottimi ricordi e tanti nuovi amici». Il Paese più ospitale? «Non ho dubbi: il Senegal, la terra della teranga, parola wolof che significa accoglienza calorosa e sorrisi sinceri nei confronti del visitatore. Là mi sono sentito a casa malgrado i bambini mi chiamassero toubab (uomo bianco, NdR). Ho dovuto lottare contro me stesso per decidermi a ripartire». Il posto più bello? «Sicuramente Zanzibar, perla della Tanzania, con le sue spiagge bianche, le sue acque turchesi, la vegetazione rigogliosa. Anche là avrei voluto fermarmi per sempre».
Momenti difficili
Non sono mancati i passaggi difficili. Tre terribili attacchi di malaria, l’ultimo in Zambia, quasi letale: «Tremavo per la febbre, avevo le allucinazioni, pensavo di morire». Nel deserto tra Kenya ed Etiopia se l’è vista brutta. «Mi ero perso, avevo smarrito l’orientamento, vagavo nella sabbia sotto il sole cocente, disidratato, sfinito… Mi sono salvato per miracolo, grazie all’incontro fortuito con una pattuglia di militari che mi ha soccorso».
In Tanzania per sbaglio aveva piantato la tenda in un’area protetta. «Venni svegliato in piena notte dai leoni attratti dal mio odore. Urlai terrorizzato all’idea di finire sbranato da quelle bestie feroci. Fortunatamente si allontanarono». Mai avuto la tentazione di mollare? La sensazione di aver commesso un errore a partire? «Mai, nemmeno per un istante», assicura Othmane, che in realtà ha rischiato di dover abbandonare l’impresa prima del previsto.
«Tra Malawi e Mozambico la polizia di frontiera mi ha fermato perché avevo il visto scaduto. In pratica ero un clandestino. Sapevo di avere commesso una stupida leggerezza. Rischiavo l’arresto e l’espulsione verso il Marocco. Mancava poco alla conclusione del viaggio, sarebbe stata una beffa terribile. Alla fine i poliziotti si ammorbidirono, capirono che non ero una spia o un pericoloso criminale. Mi lasciarono proseguire in cambio di qualche banconota».
I confini nazionali hanno rappresentato una seccatura, spesso un problema, talora un ostacolo insormontabile. «Mentre voi cittadini dell’Unione Europea siete liberi di muovervi tra gli Stati membri, noi africani dobbiamo ancora sottostare a barriere che limitano il movimento e talvolta lo impediscono – ragiona –. Ci sono frontiere pericolose, “calde”, difficili da varcare. Tra Marocco e Algeria, per esempio. O tra Mozambico e Sudafrica. Alcuni Paesi come il Ciad non rilasciano visti d’ingresso per finalità turistiche». Tra Senegal e Guinea Othmane ha trovato la strada sbarrata. «Era scoppiata l’epidemia di ebola in Africa occidentale (2014-16: oltre 11.000 morti, NdR). Le frontiere erano sigillate. Per aggirare l’ostacolo non avevo alternative che recarmi in Mali, che però mi faceva paura per via degli attacchi jihadisti di cui parlano ogni sera i telegiornali. A Bamako mi ha accolto una popolazione vivace, aperta, calorosa».
Esperienza unica
Passo dopo passo, Othmane ha trovato la soluzione ad ogni problema. Per pagarsi il viaggio ha fatto mille mestieri: il bracciante, il pescatore, il fotografo, l’accompagnatore turistico, il corriere, il commesso… In alcuni posti ha lavorato per settimane, anche mesi: il tempo necessario per guadagnarsi la tappa successiva. Una condizione che gli ha permesso di vivere appieno la vita dei Paesi visitati, scoprendone usi e costumi, condividendo la quotidianità con la gente del posto. Ciò ha reso davvero unica la sua esperienza.
Altri viaggiatori, prima di lui, hanno compiuto la traversata dell’Africa da nord a sud, ma nessuno lo ha fatto con la sua profondità, con la sua lentezza. Ha vissuto intensamente ogni momento dilatando i tempi delle soste ogniqualvolta lo ritenesse utile e interessante. Non era ansioso di collezionare timbri sul passaporto. Non rincorreva primati da Guinness. Il suo era un viaggio di formazione. Alla scoperta di sé e del suo continente.
Come un film d’avventura
Alla fine del viaggio – dopo 1.338 giorni e 30.000 chilometri –, egli non era più lo stesso Othmane della partenza. «In questi quattro anni sono cambiato molto, sono cresciuto. Ho preso coscienza dei miei limiti, delle mie paure, dei miei errori. Ho scoperto aspetti sconosciuti del mio carattere, scovato capacità che nemmeno sospettavo di avere. Ho affrontato ansie e problemi. Ogni volta che sono caduto mi sono rialzato. Perché avevo una missione da portare a termine. E quando sono arrivato laggiù ho capito che nella vita avrei potuto fare qualsiasi cosa».
Il lockdown in Sudafrica dovuto alla pandemia da coronavirus lo ha costretto per settimane dentro un appartamento a Città del Capo. In attesa di poter volare a casa e riabbracciare la famiglia ha iniziato a riguardare le immagini del suo viaggio. Ore e ore di filmati. È nata così l’idea di un documentario: Africa & I, disponibile sulla piattaforma sudafricana di streaming Showmax. Avvincente come un film d’avventura. Il primo capitolo di un viaggio che è solo all’inizio. Perché Othmane è già tornato a studiare le mappe e si sta preparando alla prossima impresa. Vuole girare il mondo in barca a vela. Senza fretta, alla sua maniera.
Questo articolo è uscito sul numero 6/2021. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop