Pubblichiamo il primo di una serie di articoli del progetto MigrArt. Un modo per conoscersi e informare, attraverso l’arte, sulle insidie delle migrazioni nel “miraggio Europa”
Marsiglia, Tunisi, Dakar e finalmente Bamako. All’arrivo in aeroporto sono assalito gentilmente da una ciurma di venditori di ogni tipo di servizio, sim, cambio valuta, taxi. Rimango disorientato per qualche istante e cerco di prendere tempo. Sono stordito. Qualche minuto dopo, dall’ombra della notte appaiono due timidi occhi che mi vengono incontro mostrandomi un cartello con scritto quello che può ricordare il mio nome. È Olivier, il tassista di fiducia. Faccio felice qualche venditore e ci avviamo verso la macchina, una Mercedes sgangherata di color giallo. «Bienvenue en Mali monsieur Tomy», mi dice mentre esegue dei zig zag per evitare le buche che incontriamo.
Bamako mi accoglie come ogni grande capitale del Sud del mondo sa fare, con le sue bancarelle sul ciglio della strada ad ogni ora del giorno e i fuochi che ardono per cucinare spiedini o smaltire plastica. In breve, un vortice di ospitalità dilagante mi avvolge. Mi perdo per le vie del Grand Marché e il ragazzo che incontro mi battezza con il primo rituale del tè amaro cinese. Il primo tè della giornata è il più forte e con il passare delle ore e delle teiere la bevanda si fa via via più dolce ed acquosa. È quindi in base al grado di concentrazione del tè che ti offrono, che capisci se sei benvoluto o no.
Dopo il tè arriva il momento del cibo: la grande bacinella di alluminio posta per terra in mezzo al cortile, e la casa africana diviene un crocevia di persone. La bacinella è riempita di riso condito con la salsa di turno, pomodoro e grandi quantità di cipolla, ogni tanto qualche verdura e, nei casi più fortunati, qualche pezzo di carne. Tutti siedono in cerchio ed esclusivamente con la mano destra si riforniscono dallo spicchio che spetta loro. A differenza dell’India, qua le palle di cibo che riescono a stare in una mano sono immense e, una volta finito di mangiare, la mano si lava con la lingua.
Mi perdo per le vie di questa città e attraggo vari tipi di sguardi, ci sono quelli ospitali ma anche quelli che ti scrutano come un portafoglio. A volte vorrei indossare una maglietta con scritto: “Sì, sono bianco, e vi chiederei scusa se potesse valere qualcosa, ma sto dalla vostra parte!”.
Poi ci sono gli occhi increduli nel vedere un ragazzo occidentale, un toubab, come ci chiamano qua, che gira da solo per le strade senza badare ai protocolli di sicurezza. La maggior parte degli espatriati che vivono a Bamako, tra diplomatici, cooperanti, peacekeeper e professionisti vari che lavorano per Onu, Ue e ong, vive per ragioni di sicurezza in una bolla fatta di lavoro, casa e ristoranti o luoghi ben sorvegliati.
All’interno di un Paese che si vede in preda a quello che eufemisticamente potremmo definire un tumulto, Bamako, eccezion fatta per qualche episodio, è un porto sicuro. È casa per le migliaia di maliani che non hanno più nemmeno un villaggio, per tutte quelle persone che fuggono ogni giorno dal centro del Paese dove imperversa una guerra tra i Fulani, pastori seminomadi, e i Dogon, agricoltori. Conflitto che si aggiunge alla situazione nel Nord del Paese, che non riesce a risorgere dopo il colpo di Stato del 2012 per l’autonomia dell’Azawad.
Se aggiungiamo il contesto tumultuoso della zona al confine con il Burkina Faso a causa dei gruppi di trafficanti, la cornice è pronta per presentare al meglio il quadro maliano. Un quadro che però, nonostante gli interessi etnici e geopolitici che mettono in ginocchio il Paese, è colorato e tenuto in vita dai suoi abitanti. Persone che vanno avanti accogliendo il mattino a ritmo di musica, scandendo le giornate a suon di preghiere e raccogliendo i frutti che arrivano da Allah, quando arrivano.
Un popolo di autisti, musicisti, madri, venditori, venditrici, cercatori d’oro, artigiani e cantanti, cuoche, camminatori, camminatrici e cantastorie. Anche di migranti, quando decidono di partire per un altro Paese africano o, nei casi più avventati e rischiosi, per il miraggio europeo.
Poi il petrolio, l’oro, l’argento dei Tuareg, la zuppa di cipolla, gli arachidi, le pecore, le mele zuccherine, le mosche, le moschee, il blues, gli insetti e gli eserciti. E infine i gruppi di bambini che riempiono le strade più di quanto riempiano le scuole.
Sono entrato in una scuola in punta di piedi e mi hanno tirato per la maglietta scaraventandomi dolcemente sulle sedie accanto a loro ed ora sono qua in mezzo a questo trambusto, a cercare di fare ciò che mi riesce meglio, creare insieme alla gente.
Il rotolo di trenta metri si sta riempiendo di disegni e sta accogliendo storie di persone appartenenti alle numerose etnie maliane che, almeno su questo pezzo di carta, convivono pacificamente. Sto svolgendo dei progetti creativi partecipati in una scuola, supportato dall’Associazione Briciole, e in alcuni campi in cui per il momento vivono gli sfollati provenienti dalle regioni infuocate. I campi sorgono sparsi qua e là per la città e vertono in condizioni di disagio pressoché totale, sono quasi tutti informali e non ricevono il supporto che necessiterebbero a livello igienico, infrastrutturale e per quanto riguarda i servizi fondamentali.
Coloro che abitano in questi campi, e che sono sfuggiti alle atrocità che dissanguano il centro del Paese, hanno perso il contatto con quello che costituiva la loro identità, il lavoro, il villaggio e le tradizioni. Alcuni campi vivono migliori condizioni grazie a volontari indipendenti che cercano di fare qualcosa raccogliendo fondi per i servizi di base e puntando i riflettori sulla situazione tragica. Alcuni campi, molto lentamente, stanno acquisendo delle sembianze di villaggi.
Nel mezzo del tumulto e dell’impotenza dinnanzi a qualcosa che è troppo grande per essere cambiato, uso l’arte per creare relazione, ascoltare, imparare e lasciare un piccolo seme di breve ma immortale serenità.
Sto lavorando a un murales partecipato e parallelamente progetto la realizzazione di piccoli parchi giochi composti da animali a dondolo da installare nei campi. Questi animali dondolanti, che raffigureranno animali e simboli tipici delle varie etnie inserite quindi in un dialogo creativo, verranno realizzati da un falegname del luogo e decorati dalle persone dei vari luoghi in cui sto lavorando.
Mentre i progetti prendono piede, questo Paese mi ha accolto con i suoi battesimi e i suoi rituali. Quando passi qualche minuto con un maliano lo lasci che ti ha affibbiato un nome del luogo. Per ora ho acquisito una decina di nomi, l’ultimo è Buubu Bâ, Bâ come Amadou Hampâté Bâ, grande scrittore maliano e promotore dell’immensa tradizione orale africana. Era lui che diceva che quando in Africa muore un vecchio, è come se bruciasse una biblioteca.
Sto cercando di imparare qualche parola della lingua bambara, qua la più parlata, e quella che mi ha colpito di più, e con cui vorrei concludere, è AMBEGNONGOMBOLO. On est ensemble. Siamo tutti insieme.
(Tommaso Sandri)