Il Parco nazionale del Virunga, che si estende lungo il confine di tre stati della regione dei Grandi Laghi Africani (Congo, Ruanda e Uganda) è il luogo in cui è avvenuta l’imboscata al convoglio su cui viaggiava l’Ambasciatore Luca Attanasio. Ancora oggi le milizie hutu Interahamwe mantengono le loro basi operative e gestiscono i loro traffici in collusione con altri gruppi armati locali. A pagare il prezzo più salato è la popolazione, schiacciata tra i conflitti, sotto il giogo dell’instabilità permanente e della povertà cronica. L’appello per disinnescare la spirale di violenza
di Donatella Rostagno, Giovanni Salvaggio, Roberto Morel
La morte dell’Ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista del Programma Alimentare Mondiale che li accompagnava, Mustapha Milambo, è sicuramente un evento tragico e gravissimo che ha lasciato gran parte dell’opinione pubblica basita. Luca Attanasio era un apprezzato diplomatico, tra i più giovani della storia repubblicana, che si era fatto conoscere anche attraverso una serie di iniziative di supporto alle categorie più vulnerabili della popolazione congolese e ai suoi regolari viaggi nell’Est del paese.
La Repubblica Democratica del Congo (RDC) è un paese grande otto volte l’Italia e afflitto da una storia tragica. Tra i maggiori eventi verificatisi dopo l’indipendenza (1960), meritano di essere brevemente ricordati: a. l’assassinio (1961) del primo ‘Primo Ministro’ democraticamente eletto Patrice Lumumba pianificato e attuato da attori internazionali (Belgio, USA) e nazionali; b. l’instaurazione successiva di una più che trentennale dittatura tra le più feroci e farsesche dell’intero continente (Mobutu Sese Seko, 1961-1997) ma connivente con gli strategici interessi economici e politici del blocco occidentale; c. L’eruzione nelle province dell’Est del Congo (Tanganika, Sud Kivu, Nord Kivu, Ituri) di una guerra in atto dal 1996 ai giorni nostri che ha causato, secondo le stime più conservative, non meno di sei milioni di morti e rendendolo quindi di gran lunga il conflitto più sanguinario mai registratosi dopo la seconda guerra mondiale.
L’Est del Congo
L’Est del Congo è cominciato a sprofondare in una situazione di totale disordine dalla seconda metà del 1994. In seguito al genocidio ruandese, almeno un milione e mezzo di hutu ruandesi in fuga dall’avanzata del Fronte Patriottico Ruandese (FPR) si è riversato in Congo intorno alle città di Bukavu e Goma, rispettivamente capoluoghi delle province del Sud e Nord Kivu. L’afflusso di questa massa enorme di rifugiati nel 1994 e 1995 ha scatenato una serie di conseguenze politiche, militari, sociali, umanitarie ed economiche che non sono specifico oggetto di questo articolo1.
Dal complesso reticolo di tensioni politiche, feroci lotte intestine legate al controllo della terra e del territorio, movimenti migratori coercitivi interni di milioni di persone, spietata lotta per il controllo delle preziose ed enormi risorse minerarie, la presenza dello Stato nell’Est del Congo è semplicemente collassata.
Ad oggi (2021) circa centoventi gruppi armati2 più o meno regolari controllano porzioni del territorio più o meno vaste, sfidano le autorità del paese dandosi battaglia in frequenti scontri armati che lasciano sul campo un numero ad oggi incalcolabile di vittime civili.
Ciò che è rilevante in questa sede è mostrare che della più che ventennale guerra combattuta nell’est del paese, innumerevoli sono state le violazioni di diritti umani (tra le maggiori citiamo esecuzioni extra-giudiziarie, violenze sessuali di massa utilizzate come strumento di guerra, eccidi a sfondo etnico) non oggetto di indagini e che di fatto hanno reso l’impunità una delle maggiori piaghe del paese. Nonostante in alcuni recenti interventi il nuovo presidente eletto Félix Tshisekedi abbia indicato nella lotta per la giustizia una delle priorità politiche del suo governo, pochi sono i progressi che si sono registrati fino ad ora. Basti citare i più di seicento crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi tra il 1993 e il 2003 nell’Est del Congo e che non sono stati oggetto di indagine giudiziaria (Mapping Report, UN, 2010). La società civile congolese, con in primo piano il premio Nobel per la Pace Denis Mukwege, ha denunciato il fatto che il rapporto ‘è stato dimenticato in un cassetto’.
Una strategia di rafforzamento del settore della giustizia, che non si focalizzi solamente sugli aspetti punitivi ma che metta in atto processi che accompagnino le vittime a ottenere il giusto riconoscimento e riparazione per le sofferenze subite è assolutamente prioritaria. Una giustizia che trovi i mezzi, le risorse e la volontà per fare finalmente luce sui crimini compiuti e che contribuisca, al contempo, a creare le condizioni per prevenire la ripetizione di simili efferati crimini in futuro, è il solo modo per mettere fine all’instabilità che caratterizza il paese.
Il primo parco nazionale africano
Il Parco nazionale del Virunga, zona in cui è avvenuta l’imboscata al convoglio su cui viaggiava l’Ambasciatore Luca Attanasio è tra le zone più martoriate dagli scontri armati.
Tutta la zona intorno al Lago Kivu che abbraccia i vasti territori fertili di Rutshuru e Nyiragongo, è stata per secoli abitata da comunità locali che hanno vissuto coltivando, pescando e commerciando nei luoghi che sono poi diventati, a partire dal 1925, il Parco Nazionale del Virunga. Dal 1979 il parco è considerato patrimonio dell’umanità dell’UNESCO.
Le gestione del parco è affidata all’Istituto Congolese per la Conservazione della Natura (ICCN), agenzia di stato congolese con statuto paramilitare che conta sulla difesa di 689 rangers, un corpo di unità misto a soldati dell’esercito nazionale congolese (FARDC) che ha il compito di salvaguardare il parco del Virunga e le specie floro-faunistiche presenti dentro l’area protetta, primo tra tutti il gorilla di montagna. Secondo fonti interne, almeno 200 rangers hanno perso la vita nell’esercizio delle loro funzioni dal 20083.
Un territorio militarizzato
Il Parco del Virunga si estende lungo il confine di tre stati della regione dei Grandi Laghi Africani (Congo, Ruanda e Uganda). Per conformazione naturale, il Parco è uno dei corridoi di passaggio principali verso una delle zone più ricche di minerali non solo del Congo ma dell’intero continente africano, il Nord Kivu. Il sottosuolo del Parco offre un’abbondanza di minerali (cassiterite, oro, diamanti, coltan e altri) che, ad oggi, sono oggetto di numerose concessioni per la loro estrazione da parte di multinazionali globali (americane, europee, cinesi e sudafricane tra le altre). Ricchezze che si trovano in territori controllati dai numerosi gruppi armati della regione i quali, da oltre vent’anni, tirano i loro ricavi da questo commercio internazionale condotto in modo spesso oscuro e illegale e che utilizzano il parco come nascondiglio naturale. Come sempre, a pagare il prezzo più salato, è la popolazione locale schiacciata tra i conflitti tra i gruppi armati spesso difficili da differenziare gli uni dagli altri e che comportano, come unico risultato certo, l’impossibilità di condurre una vita dignitosa sotto il giogo dell’instabilità permanente e della povertà cronica.
Nei settori centrale e sud del Parco, zona in cui è avvenuto l’attacco all’Ambasciatore Attanasio, le milizie hutu Interahamwe mantengono ancora oggi le loro basi operative e gestiscono i loro traffici in collusione con altri gruppi armati locali. Responsabili – non certo da soli – dell’instabilità del Parco, questi gruppi armati sono oggetto dal 2013 di una massiccia offensiva dei caschi blu della ‘Brigata di Intervento Rapido’ il cui mandato, definito dalla risoluzione 2098 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, è quello di neutralizzare i gruppi armati attivi nella zona. Il nocciolo del problema, però, è che le operazioni militari che ne sono conseguite sono state accompagnate da un’inefficiente azione politica di pacificazione e risoluzione dei conflitti e, come unico effetto, hanno visto la nascita di una moltitudine di bande armate ancora più parcellizzate e irregolari che operano senza alcuna regola lungo la principale via di comunicazione (la route N2) che attraversa questi settori del Virunga4.
Questa polverizzazione del conflitto e la conseguente massiccia militarizzazione ha deteriorato ulteriormente i rapporti tra le autorità (ICCN in primis) e le comunità locali5. La politica solamente repressiva messa in atto dalle autorità e dai caschi blu non è stata in grado di offrire soluzioni di medio e lungo termine. A livello economico, le principali fonti di reddito per le popolazioni locali – commercio del makala (carbone), pesca, caccia, coltivazione tra le principali – sono state dichiarate illegali senza che venissero preliminarmente discusse e offerte soluzioni economiche alternative. A livello securitario, gli abusi, le violenze e il coinvolgimento in casi di corruzione delle ecoguardie (ICCN) e di elementi delle FARDC nella gestione del loro mandato di protezione del parco hanno spesso portato le comunità locali a rivolgersi ai diversi gruppi armati per richiedere protezione contro le ingiustizie e i torti subiti per mano delle stesse istituzioni dello Stato.6
Istituzione di un tavolo di dialogo
Nel contesto di cui si è parlato, del Nord Kivu in generale e del Parco del Virunga in particolare, le soluzioni indirizzate a pacificare e stabilizzare la zona, sono state spesso, come accennato, esclusivamente militari. Ci sembra fondamentale, invece, riflettere su soluzioni alternative. Soluzioni che tengano conto delle necessità locali, che coinvolgano direttamente i diversi attori che svolgono un ruolo nella vita economica e sociale del Nord Kivu, che prendano in considerazione le necessità di marcare un netto passo in avanti nella gestione e risoluzione dei conflitti.
L’esperienza insegna che in molti casi membri dei gruppi armati tentano di realizzare il passaggio dalla milizia irregolare alla vita civile, cercando valide e concrete occasioni per abbandonare la lotta armata7. Alcune esperienze di dialogo e mediazione si sono dimostrate efficaci in questo senso. Per esempio tra il 2017 e il 2018 la Missione Waibraimu e i villaggi di Muhanga e Bunyatenge, avevano tentato di organizzare uno spazio di mediazione tra due gruppi armati, NDC/R (in seguito scisso in NDC/R Guidon ed NDC/R Bwira) e UPDI/Mazembe
Tre decenni di interventi militari non sono serviti a pacificare la provincia del Kivu. Anzi, da un punto di vista securitario, la situazione è indubbiamente peggiorata come abbiamo cercato di mostrare.
Per questo, intendiamo rivolgere un appello rivolto al governo italiano e alle organizzazioni della società civile italiane attive nell’Est del Congo e particolarmente nell’area del Parco del Virunga a:
- Sostenere l’identificazione di comunità e zone rurali pilota nel Parco del Virunga che diventino fucine di sperimentazione per tavoli di dialogo;
- Sostenere progetti di mediazione inclusiva aventi l’obiettivo di pacificare la zona del conflitto attraverso un dialogo pacifico tra le parti e facendo tacere le armi;
- Sostenere e incoraggiare il coinvolgimento delle organizzazioni della società civile italiani e congolesi già presenti sul territorio e che aventi già esperienza di mediazione fin dalle prime fasi di riflessione e concezione di simili progetti;
- Sostenere un progetto “Dialogo del Virunga” come laboratorio di mediazione e dialogo permanente tra le comunità locali, le associazioni di difesa dei diritti umani, esponenti della società civile, ICCN, FARDC e i diversi gruppi armati aventi come obiettivo principale l’esplorazione di alternative pacifiche alle inefficienti operazioni militari
Mentre aspettiamo ancora di ascoltare una ricostruzione finalmente chiara e trasparente delle dinamiche che hanno condotto all’assassinio dell’Ambasciatore Luca Attanasio, il Governo italiano dovrebbe farsi portavoce di una tale iniziativa, svolgere un ruolo di rilievo per far pressione sul governo della RDC e sugli stati membri dell’Unione Europea a intraprendere e sostenere politicamente e finanziariamente, senza ulteriori indugi, la via del dialogo come mezzo privilegiato per perseguire obiettivi di pace stabili e duraturi.
(Donatella Rostagno, Giovanni Salvaggio, Roberto Morel)
1 Alcune letture consigliate per chi volesse approfondire: The Great African War, Reyntjens , 2009; Dancing in the Glory of Monsters, Stearns, 2011; Why comrades go to war, Roessler & Verhoeven, 2016.
2 Nell’est del Congo sono 122 i gruppi armati attivi nelle regioni Ituri, Nord Kivu, Sud Kivu e Tanganika. Di questi
108 si trovano nel Nord e Sud Kivu (rispettivamente 45 e 63). Kivu Security Tracker, February 2021 www.kivusecurity.org
3 https://virunga.org/fr/alliance/virunga-rangers/
4 Basti pensare che negli ultimi tre anni nella zona si sono contati 829 rapimenti con richesta di riscatto e 727 senza richiesta di riscatto – dati Kivu Security Tracker www.kivusecurity.org
5 La campagna di militarizzazione è stata sostenuta (anche dal punto di vista mediatico) in quanto necessaria al fine di garantire la fine delle violenze attraverso l’uso della forza. Basti pensare che uno dei maggiori finanziatori del Virunga è la Commissione europea che, attraverso la partnership con ICCN e Fondazione Virunga, contribuisce alla “Green Militarisation” (militarizzazione verde), cioè al sostegno alla formazione militare dei rangers del parco grazie a fondi destinati a progetti di sviluppo. Ne parlano esaustivamente J. Verweijen and E. Marijnen in Guerrilla livelihoods and the dynamics of conflict and violence in the Virunga National Park.
6 CIDDHOPE, Communiqué de Presse, Mars 2021
7 Il fenomeno circolare della “mobilità” tra gruppi armati e vita civile è spiegata in dettaglio in Koen Vlassenroot, Emery Mudinga, Josaphat Musamba, Navigating social spaces: armed mobilization and circular return in Eastern DR Congo, Journal of Refugee Studies, 2020;, feaa048, https://doi.org/10.1093/jrs/feaa048
Durante i 15 mesi in cui si è tentato di portare avanti il dialogo, nell’area compresa tra i villaggi di Muhanga/Bunyatenge/Mbwavyniwa/Pitakongo/Kanyatsi (Sud Lubero) si è avuta una significativa diminuzione degli incidenti violenti . L’ essere impegnati nella mediazione aveva, in qualche modo, spostato l’attenzione dallo scontro armato al tentativo di dialogo civile.