di Michela Fantozzi
L’immigrazione irregolare è per molti africani l’unica strada. Un visto d’ingresso è un miraggio, specie per chi proviene dalle ex colonie italiane. Eppure sarebbe interesse di tutti, anche dei Paesi ricchi, agevolare la mobilità dei migranti
Il dibattito sull’immigrazione rimane appiattito sull’aprire o no le frontiere a chi arriva per mare. E se cambiassimo prospettiva? Parliamo dell’iniquità della politica dei visti.
Le carceri libiche e i morti in mare sono la tragica conseguenza di una mobilità internazionale appannaggio di alcuni e fortemente limitata agli altri. Secondo il Global Passport Power Rank, una classifica dei passaporti di tutti gli Stati del mondo, i cittadini con maggior libertà di movimento sono quelli degli Emirati Arabi Uniti, seguiti dalla Corea del Sud e da diversi Paesi europei, tra cui l’Italia. Il Paese del continente africano con il ranking più alto è il Sudafrica, al 49° posto su 101, seguito dalla Tunisia (69°); quelli più in basso sono Etiopia (92°), Eritrea (93°), Libia (95°), Somalia (98°). Notare che questi ultimi hanno tutti subito la colonizzazione dell’Italia.
Comprare un visto, un passaggio aereo e mantenersi per un anno in una città italiana qualsiasi costerebbe meno, a un subsahariano, di quanto debba pagare ai trafficanti: anche diverse migliaia di euro. Le vie legali per l’accesso in Italia e in Europa si sono notevolmente ristrette negli ultimi 10 anni. Se nel 2011 le quote d’ingresso annue ammontavano a quasi 100.000 lavoratori, dal 2012 la media si è abbassata di 15.000 unità, l’85% in meno dell’anno precedente. Quelle stabilite dal decreto flussi per il 2021 – che cita 11 Paesi africani (Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Ghana, Mali, Marocco, Niger, Nigeria, Senegal, Sudan, Tunisia) – sono previste solo per il lavoro non stagionale nell’edilizia e nei trasporti, in totale 17.000 posti da spartire anche con Paesi dell’Asia e dell’Est Europa. I visti d’ingresso per lavoro non stagionale e autonomo sono in tutto 27.000, e priorità viene data agli stranieri di origini italiane. Per il lavoro stagionale sono previsti 42.000 posti – non sono esplicitate le quote per l’Africa.
La domanda è: perché non si concede ogni anno un numero di visti adeguato alle necessità del Paese? Sarebbe il modo più facile per disincentivare le persone a partire con i trafficanti, alleggerire il carico/costo sostenuto dallo Stato per i centri di accoglienza e, di conseguenza, stroncare le carceri libiche. La ragione può essere ricercata nelle parole di Achille Mbembe, filosofo camerunese: «Le frontiere non sono più mere linee di demarcazione che separano distinte entità sovrane. Sempre più comunemente, sono il nome con cui noi descriviamo la violenza organizzata che sostiene sia il capitalismo contemporaneo sia l’ordine mondiale generale. Ma forse, per essere precisi, non dovremmo parlare di frontiere in senso generale, bensì di frontierizzazione, cioè del processo per cui certi spazi sono trasformati in luoghi invalicabili per certe classi di popolazione, che quindi subiscono il processo di razzializzazione. Posti dove le vite di una moltitudine di persone giudicate non desiderabili sono destinate a rimanere immobilizzate se non frantumate».
Nessuno pone al centro del dibattito la questione visti perché si vuole considerare la migrazione africana un problema, con la destra ostinatamente contraria e una sinistra paternalista. È tempo di passare dalla retorica dell’accoglienza al diritto alla mobilità. Smettiamola di parlare di aiuti, cominciamo a parlare di visti.
Questo articolo è uscito sull’ultimo numero della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.