Louis Vuitton ha utilizzato il kente nella sua ultima collezione, vista pochi giorni fa a Parigi.
Kente è la stoffa regale degli akan dell’Impero ashanti: un tessuto tenuto in grande considerazione che mal si presta a un uso profano. A differenza di quel che è accaduto in passato, quando altri brand di moda (e lo stesso Vuitton) hanno utilizzato stoffe africane o in uso in Africa per le proprie collezioni, non si è levata fino ad ora nessuna denuncia di appropriazione culturale.
Da cosa dipende questo cambio di passo? Probabilmente dall’organigramma di Louis Vuitton. Alla direzione artistica del brand c’è infatti dal 2018 il designer afroamericano Virgil Abloh, che si è distinto per l’impegno antirazzista e positive action a favore dei neri. E questo è stato considerato da diversi commentatori come una garanzia sufficiente della correttezza dell’operazione.
“Con Virgil Abloh come direttore artistico della grande casa di moda, non sorprende che il kente abbia trovato una presenza di così alto profilo”, ha dichiarato per esempio la scrittrice Elizabeth Ohene alla Bbc.
“Abloh è descritto come un designer americano, ma poiché ha genitori ghanesi, noi in Ghana lo rivendichiamo”. Ohene riconosce che l’uso industriale e profano del kente potrebbe sollevare delle perplessità, ma preferisce non addentrarsi su questo lato della vicenda.
Nel 2012, poprio Louis Vuitton era stato accusato di appropriazione culturale per avere riprodotto disegni e grafismi delle coperte dell’etnia basotho del Lesotho nella realizzazione di camicie, pullover e scialli, ignorando il loro significato tradizionale e trasformandoli in capi costosissimi. Allora il direttore artistico era Kim Jones.
Altri brand di moda sono stati fortemente contestati per avere utilizzato tessuti africani. Una delle polemiche più recenti ha investito la maison Dior e la sua direttrice creativa Maria Grazia Chiuri, che nella sfilata cruise realizzata a Marrakech nel 2019 aveva presentato molti capi realizzati in wax, il cotone stampato a cera con riserva considerato un vessillo dell’africanità. Proprio per non sbagliare, Chiuri si era affidata alla consulenza di una delle più competenti studiose di wax e aveva scelto di rivolgersi a produttori ivoriani qualificati. Ma questo non era stato sufficiente a metterla al riparo dalle critiche. Il wax, per inciso, ha origini asiatiche ed è stato portato in Africa dagli olandesi. È un tessuto transnazionale che fa dialogare i continenti.
(Stefania Ragusa)