Yomeddine presentato in concorso a Cannes, primo lungometraggio del registra austro-egiziano A.B. Shawky, racconta con i toni di una favola on the road il viaggio attraverso il deserto egiziano di Beshay, un lebbroso ormai guarito che, accompagnato da un orfano nubiano e un asino, abbandona il lebbrosario per ritrovare le proprie radici.
Il viaggio di questi esclusi dalla società è raccontato con uno stile estremamente semplice che fa emergere l’intensa interpretazione di Rady Gamal, analfabeta, anch’esso malato di lebbra, al quale il regista ha dovuto leggere ad alta voce l’intera sceneggiatura del film .
L’intento del regista era di non far distogliere lo sguardo dello spettatore dagli esclusi, per far cogliere l’umanità, la grazia, la fierezza e la gioia dei malati di lebbra, che Shawky ha potuto osservare durante le riprese di un precedente documentario girato nel lebbrosario d’Abou Zabaal, vicino al Cairo.
La storia ha l’ambizione di rappresentare simbolicamente un Egitto complesso, raramente mostrato al cinema. Non si vedono infatti piramidi e neanche immagini del Cairo, ma solo un paese abitato da un popolo, né buono né cattivo, impiegato quotidianamente nella lotta per la sopravvivenza.
Il film non vuole dare un punto di vista politico e si vuole distinguere dai dibattiti politici e religiosi che ruotano solitamente intorno ai film egiziani. Il regista si ispira al cinema dei fratelli Coen, ma si possono intravedere citazioni de Il monello di Chaplin ed Elephant Man di David Lynch.
L’accoglienza della critica è stata tiepida e più della qualità del film, sul web ha fatto notizia il vestito osé di un’ attrice presente alla proiezione di un regista di un paese mussulmano… Gli attori invece non hanno potuto, per problemi di visti, raggiungere il regista a Cannes.
Sito web: www.le-pacte.com
(Simona Cella)